Fantasmi nel corso della storia

Evoluzione delle Credenze sui Fantasmi nel Corso della Storia

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Introduzione all’Aldilà secondo le antiche credenze

Nell’antichità, non c’erano dubbi sul fatto che una parte dell’individuo, l’anima, sarebbe sopravvissuta anche dopo che il corpo fisico avesse cessato di esistere. Che si credesse o meno, era un fatto universalmente accettato che i defunti continuassero a esistere in una forma diversa e richiedessero una qualche forma di sostentamento in un aldilà appositamente preparato da alcuni fattori. Questo articolo affronta il tema dei fantasmi nel corso della storia.

La leggenda narrava che l’Aldilà fosse un regno di meraviglia e magia, dove le anime dei defunti potevano vagare libere ed esplorare i misteri dell’universo. Era un luogo in cui il cielo era sempre di un colore viola e le stelle scintillavano come diamanti. L’aria era piena del dolce profumo dei fiori e gli alberi erano carichi di frutti di ogni tipo. Le anime venivano accolte da creature eteree che le avrebbero guidate verso la loro destinazione finale. Queste creature erano simili a fate alate, con ali scintillanti e un’aura radiosa. Volavano intorno alle anime, cospargendole di polvere di stelle che ringiovaniva il loro spirito e le faceva sentire di nuovo vive.

Nelle varie credenze dei fantasmi nel corso della storia, l’Aldilà era diviso in diverse regioni, ognuna dedicata a una particolare virtù o vizio. Coloro che avevano condotto una vita virtuosa si sarebbero trovati in un luogo di beatitudine eterna, dove sarebbero stati circondati dal calore dell’amore e della gentilezza. Le anime si sarebbero divertite nei giardini del paradiso e avrebbero cantato canzoni di gioia e felicità. D’altro canto, coloro che hanno condotto una vita malvagia si ritroveranno in un luogo buio e desolato, dove saranno tormentati dalla loro colpa e dai loro rimpianti. L’aria sarebbe stata densa di puzza di zolfo e le anime sarebbero state perseguitate dai loro stessi demoni.

Tavoletta di argilla babilonese di 3500 anni fa: a destra è mostrata una sovrapposizione con le immagini in primo piano | Foto © British Museum
Tavoletta di argilla babilonese di 3500 anni fa in cui appare il Primo Fantasma (Foto ©British Museum)

Mentre le anime viaggiavano nell’aldilà, si imbattevano in varie sfide e ostacoli che dovevano superare per raggiungere la loro destinazione finale. Ma con l’aiuto delle loro guide spirituali e la forza della loro volontà, ne sarebbero uscite vittoriose e avrebbero trovato la pace e la felicità eterne. L’aldilà era quindi un regno di meraviglia e magia, dove le anime dei defunti potevano continuare il loro viaggio alla scoperta di sé e dell’illuminazione. Era un luogo in cui i sogni si avveravano e tutto era possibile. E anche se si trattava di un mondo al di là del nostro, occupava un posto speciale nel cuore di tutti coloro che ci credevano.

Un esempio lo possiamo ritrovare in quello che viene oramai chiamato il Primo Fantasma, scolpito su una tavoletta di argilla babilonese di 3500 anni fa, in cui uno spirito femminile guida uno spirito con le mani legate, forse per condurlo nell’Oltretomba.

Ovviamente, le specificità delle narrazioni dell’aldilà variano nelle diverse culture. Tuttavia, ci imbattiamo costantemente nella convinzione della sua esistenza, nell’idea che sia governata da leggi immutabili e nella residenza eterna delle ombre dei morti. A meno che gli dei non lo permettano per motivi specifici, i morti dovevano rimanere nel regno dei vivi. Tali ragioni possono includere un rito funebre improprio o l’assenza di sepoltura, una morte per annegamento in cui il corpo non è stato ritrovato (e quindi non è stato deposto correttamente), la necessità di risolvere questioni in sospeso o il resoconto accurato degli eventi che hanno portato alla morte, come nel caso di un omicidio irrisolto che richiedeva di consegnare il colpevole alla giustizia. Solo allora il defunto potrà trovare pace nel suo riposo eterno.

Cranio romano con un obolo in bocca (fonte: tramite WIkimedia Commons)
Cranio romano con un obolo in bocca

La manifestazione e l’esperienza di fenomeni attribuiti ad apparizioni fantasma, anche di parenti defunti, erano raramente considerate di buon auspicio: i morti rimanevano nel loro regno e non ci si aspettava che varcassero la soglia del mondo dei vivi. Quando si credeva che un evento del genere si verificasse, era segno che qualcosa non andava, tanto che chi viveva l’esperienza soprannaturale sentiva l’imperativo etico di risolvere il problema e placare le ombre riportandole al loro posto.

Questo fenomeno era così diffuso e prevalente che storie di apparizioni spettrali con temi simili si trovano nelle antiche culture di Mesopotamia, Egitto, Grecia, Roma, Cina, India, in alcune regioni mesoamericane, nelle terre celtiche dell’Irlanda e della Scozia e persino nella Bibbia stessa, che narra di incontri con fantasmi in modo non dissimile dai testi latini.

Questo articolo non ha l’obiettivo né la possibilità di trattare in modo esaustivo l’argomento dei fantasmi nel corso della storia, viste le innumerevoli opere ad esso dedicate in molte culture, alcune delle quali sono qui menzionate e altre no. L’intento è quindi quello di fornire al lettore le conoscenze di base sulle credenze relative ai fantasmi e all’aldilà nel mondo antico. Se voleste accentuare gli argomenti dei seguenti paragrafi, vi segnalo in ciascuno di essi l’articolo che ne approfondisce i contenuti.

I fantasmi nell’antica Mesopotamia

Nella cultura mesopotamica, la morte rappresentava un irrevocabile atto finale della vita umana. L’Oltretomba, noto con vari nomi, tra cui Irkalla, che significa la terra del non ritorno, era un reame sotterraneo oscuro dove le anime dei defunti erano condannate a languire nell’oscurità eterna. In questo luogo desolato, si nutrivano di sporco, terriccio e detriti, e cercavano disperatamente l’acqua nelle melmose pozzanghere per placare la loro sete.

Un esempio significativo di questa concezione dell’Oltretomba si trova nel famoso poema epico Gilgameš, Enkidu e gli inferi, che offre una visione vivida di questo mondo tenebroso e spietato.

Questa tetra condizione post-mortem era il destino inevitabile di tutti, indipendentemente da come avevano condotto la loro vita. La sovranità su questo regno delle ombre apparteneva all’oscura regina Ereškigal, la custode degli inferi, che vigilava senza pietà su tutte le anime intrappolate in Irkalla. Non c’era eccezione a questa regola draconiana, neanche per una dea. Un esempio eloquente di questo principio si può trovare nel poema La discesa di Inanna agli inferi, in cui la regina celeste Inanna, sorella di Ereškigal, è costretta a trovare un sostituto per prendere il suo posto nei bassifondi degli inferi, al fine di poter riascendere alla vita.

Rilievo Burney (La Regina della Notte) del XIX secolo a.C., conservato al British Museum di Londra
Rilievo Burney (La Regina della Notte) del XIX secolo a.C., conservato al British Museum di Londra

Tuttavia, c’era un’unica eccezione ammessa: le anime che dovevano completare delle faccende nel mondo dei vivi. Si credeva che questi fantasmi potessero apparire ai viventi, agendo come messaggeri o vendicatori, con l’obiettivo di far compiere giustizia o risolvere questioni irrisolte. La loro presenza era vista come un segno della persistente influenza dell’oltretomba sul mondo dei vivi e della necessità di rispettare gli antichi rituali funerari per garantire un passaggio sicuro nell’aldilà.

Nella cultura mesopotamica, le apparizioni dei fantasmi erano spesso descritte come una sorta di malattia che colpiva i vivi. Secondo l’assiriologo Robert D. Biggs, i defunti, in particolare i parenti deceduti, potevano tormentare i vivi, specialmente se il dovere familiare di offrire doni e preghiere ai defunti veniva trascurato. I fantasmi che avevano maggiori probabilità di ritornare per disturbare i vivi erano quelli di individui morti in circostanze innaturali o che non avevano ricevuto una sepoltura adeguata, come ad esempio coloro che erano annegati o caduti in battaglia.

I guaritori mesopotamici, noti come asû e ašipu, cercavano di placare gli spiriti attraverso l’uso di incantesimi e rituali magici. Tuttavia, prima di iniziare il trattamento, il paziente doveva confessare apertamente ogni peccato che potesse aver contribuito all’invocazione dei fantasmi, poiché la malattia era considerata una manifestazione esterna della punizione inflitta dai dèi o dalle anime dei defunti per i peccati commessi dal malato, fino a prova contraria o espiazione.

Al momento della morte, si creava un’entità spirituale chiamata gidim, che manteneva l’identità personale del defunto e si dirigeva verso il regno dei morti. Questa entità, se non riceveva i giusti riti funerari o se venivano compiuti atti illegittimi legati alla morte del defunto, poteva tornare per tormentare i vivi. Tuttavia, alcune iscrizioni menzionano anche casi in cui i gidim fuggivano dall’Irkalla (l’Oltretomba) e tormentavano i vivi senza una valida ragione. In questi casi, il dio del sole Šamaš puniva questi spiriti privandoli delle offerte funebri, che venivano invece assegnate a gidim che non avevano nessuno al mondo che li ricordasse o che offrisse preghiere e doni per garantire la loro esistenza continua.

Nonostante ci siano resoconti di cari defunti che tornavano dall’aldilà per dispensare consigli e ammonimenti, nella Mesopotamia la maggior parte dei fantasmi erano visti come una presenza indesiderata da ricondurre nella tomba attraverso l’uso di incantesimi, amuleti, preghiere ed esorcismi. Questo rafforzava la convinzione che la morte fosse un confine rigoroso tra il mondo dei vivi e quello dei morti, e che l’interferenza dei fantasmi dovesse essere evitata o risolta attraverso pratiche religiose e magiche.

I fantasmi nell’antico Egitto

Nell’antico Egitto, l’apparizione di un fantasma era considerata una questione estremamente seria e carica di significato. Gli Egizi avevano una profonda avversione per l’idea della non-esistenza, e credevano che dopo la morte, l’anima intraprendesse un viaggio verso la Sala della Verità dove sarebbe stata giudicata da Osiride e altri quarantadue giudici durante il rito noto come la pesatura del cuore o psicostasia. In questo processo, il cuore (simboleggiante l’anima) del defunto veniva posto su una bilancia e pesato contro la piuma della dea Maat, il simbolo dell’ordine, dell’armonia e della verità. Se il cuore risultava più leggero di una piuma, l’anima era considerata pura e meritevole di proseguire il suo viaggio nell’aldilà. Al contrario, se il cuore era più pesante della piuma, il defunto veniva giudicato colpevole di peccati e la sua anima era destinata a essere divorata da un mostruoso essere e quindi condannata all’annientamento.

Questo processo era strettamente collegato alla concezione egiziana di giustizia e moralità. Il cuore più leggero indicava una vita condotta con rettitudine, mentre un cuore più pesante rappresentava una vita caratterizzata dall’ingiustizia e dal peccato. In altre parole, il destino dell’anima dopo la morte dipendeva direttamente dalle azioni compiute durante la vita.

La residenza dei defunti, conosciuta come il Campo di giunchi, rifletteva in modo accurato la vita che il defunto aveva condotto in Egitto. Questo mondo ultraterreno era una replica dell’esistenza terrena, con la stessa casa, lo stesso ruscello, lo stesso cane fedele e l’albero amato. Questo concetto sottolineava che uno spirito non aveva motivazioni vitali per tornare nel mondo dei vivi, poiché già godeva di una vita confortante e familiare nell’aldilà.

In sintesi, l’antico Egitto considerava la persistenza dell’anima dopo la morte come un aspetto cruciale della sua religione e della sua cultura. La pesatura del cuore era un processo determinante che rifletteva il sistema di valori e la profonda convinzione nella giustizia divina che permeavano la società egiziana.

Amuleto che rappresenta il Ba
Amuleto che rappresenta il Ba

Nel sistema di credenze dell’antico Egitto, l’anima era considerata un’entità straordinaria e veniva identificata come khu, che rappresentava l’aspetto immortale dell’individuo. In epoche successive, questa concezione dell’anima subì una trasformazione, dividendo l’anima in cinque componenti distinte. Tra queste, il ka rappresentava l’essenza vitale di una persona, mentre il ba rappresentava la sua personalità. Dopo la morte, il ka e il ba si univano per formare l’akh, un’entità che aveva la capacità di manifestarsi come un fantasma.

Se durante la sepoltura non venivano eseguiti i rituali appropriati o se i parenti commettevano peccati prima o dopo la morte dell’individuo, l’akh di quest’ultimo riceveva il permesso dagli dèi di tornare nel mondo dei vivi per riparare a eventuali ingiustizie subite. Coloro che erano tormentati da uno spirito inquieto dovevano fare appelli rituali all’entità stessa, sperando di ottenere una risposta ragionevole. In caso contrario, un sacerdote poteva intervenire e agire come intermediario tra i vivi e i morti, cercando di risolvere la controversia.

Un esempio concreto di questa credenza si trova in una lettera scritta da un vedovo a sua moglie defunta, rinvenuta in una tomba risalente al Nuovo Regno. Nella lettera, il vedovo implora lo spirito della moglie di concedergli un periodo di pace, poiché si dichiara innocente di ogni iniquità o torto commesso nei suoi confronti mentre era in vita. Questo rappresenta un tentativo disperato di cercare il perdono e la comprensione dell’anima della moglie, ora onnisciente e ubicata nel Campo di giunchi.

In questo modo, le credenze dell’antico Egitto riflettono una profonda preoccupazione per la giustizia nell’aldilà e per il potere delle anime dei defunti di interagire con il mondo dei vivi. La figura del sacerdote assumeva un ruolo cruciale nella mediazione tra queste due dimensioni, cercando di risolvere i conflitti e ripristinare l’armonia tra gli spiriti e coloro che erano ancora in vita.

«Di che colpa mi sono macchiato verso di te, che debba trovarmi in questo cattivo stato? Cosa ho fatto contro di te, che tu mi abbia messo la mano addosso benché non abbia colpe verso di te, da quando ero con te come marito fino ad oggi? Cosa ho fatto contro di te che debba nascondere? […] Quando ti ammalasti di questa tua malattia, feci venire un medico primario che ti curasse […] io passai otto mesi senza mangiare e senza bere in maniera umana; […] e piansi moltissimo con gli altri, alla presenza del mio quartiere. Dètti stoffa di lino del sud per bendarti e feci fare molte stoffe, e non permisi che alcunché ti mancasse. E ora, vedi, ho passato fin qui tre anni, e sono seduto e non entro in una casa (di altra donna), benché non sia giusto per uno della mia condizione (sociale). Ora vedi, io l’ho fatto per riguardo a te, ma ora vedi, tu non conosci il bene dal male.»

Letteratura e poesia dell’antico Egitto, 1969

Se il corpo di una persona veniva sepolto secondo i corretti rituali e se veniva mantenuta una memoria continua attraverso il culto, gli Egizi credevano che lo spirito del defunto potesse addirittura portare grandi benefici ai viventi e fungere da protettore per l’intera loro vita. Tuttavia, nell’ambito della cultura egiziana, era importante stabilire una significativa distinzione tra lo spirito che risiedeva in pace nel Campo di giunchi (l’aldilà) e il fantasma che faceva ritorno sulla terra.

Statua votiva del dio Osiride in bronzo e oro, 700-80 a.C. (periodo saitico-tolemaico) conservato presso il Museo di archeologia e antropologia dell'Università della Pennsylvania (fonte: tramite Wikimedia Commons)
Statua votiva del dio Osiride in bronzo e oro, 700-80 a.C. (periodo saitico-tolemaico)

Il rispetto dei riti funerari e il culto continuo erano considerati fondamentali perché lo spirito del defunto potesse raggiungere uno stato di armonia e prosperità nell’aldilà. In questa dimensione, l’anima defunta poteva diventare un benefattore per i viventi, proteggendoli e portando loro fortuna. L’idea di mantenere viva la memoria del defunto attraverso il culto rappresentava un legame prezioso tra i viventi e i loro antenati, che poteva essere un’importante fonte di forza e sostegno nella vita quotidiana.

Tuttavia, c’era una differenza significativa tra lo spirito che risiedeva pacificamente nell’aldilà e il fantasma che faceva ritorno sulla terra. Mentre lo spirito nel Campo di giunchi rappresentava la versione serena e benevola del defunto, il fantasma era associato a situazioni in cui i riti funerari erano stati trascurati o in cui erano stati commessi peccati. Il ritorno di un fantasma poteva essere problematico per i viventi, poiché poteva portare disturbo e sfortuna, richiedendo quindi l’intervento di sacerdoti o parenti per cercare di risolvere la situazione e garantire la pace per entrambi i mondi, quello dei vivi e dei defunti.

In sintesi, l’antico Egitto aveva una complessa visione delle interazioni tra i viventi e i defunti, basata sul rispetto dei riti funerari e del culto continuo. Questo equilibrio tra lo spirito nell’aldilà e il possibile ritorno del fantasma rappresentava un aspetto fondamentale della cultura egiziana e della loro comprensione del mondo spirituale.

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