I fantasmi sono sempre stati una parte intrinseca della nostra storia e cultura. Oggi, possiamo percepirli come protagonisti di moderni film horror e “star” di spettacolari reality show dedicati alla caccia ai fantasmi, ma in realtà, le storie di questi esseri disincarnati risalgono a migliaia di anni fa, affondando le radici nella nostra storia ancestrale. Ciò che potrebbe essere considerata la più antica rappresentazione di quello che viene oramai chiamato il Primo Fantasma, scolpito su una tavoletta di argilla babilonese di 3500 anni fa, in cui uno spirito femminile guida uno spirito con le mani legate, forse per condurlo nell’Oltretomba.
La tavoletta è conservata al British Museum di Londra. Questo ritrovamento mette in luce il fatto che il concetto dei fantasmi è stato presente nell’immaginario collettivo umano per millenni.

Tuttavia, i fantasmi non erano esclusivi della cultura sumerica; molte altre antiche civiltà condividevano simili credenze riguardo alla possibilità dei morti di fare ritorno. Le credenze relative ai fantasmi facevano parte integrante delle culture mesopotamiche sin dai tempi più remoti, ma erano comuni a molte altre civiltà del passato. Questo ci fa riflettere su quanto profonde e diffuse fossero tali credenze tra gli antichi, dimostrando che il mistero degli spiriti attraversa le ere e le culture, continuando a incuriosire e spaventare l’umanità nel corso dei millenni.
Mentre gli antichi babilonesi e sumeri convivevano con gli spiriti, gli antichi egizi avevano qualche problema con i fantasmi, offrendoci uno sguardo affascinante in un mondo dove il confine tra il regno dei vivi e quello dei morti era tutto tranne che netto. Infatti, gli egizi credevano che questa linea fosse così sottile da consentire ai fantasmi non solo di fare la loro apparizione tra i vivi, ma anche di essere oggetto di suppliche o richieste di favori, e talvolta di placare i loro atti vendicativi.
Molti aspetti delle credenze egizie nei fantasmi risulterebbero sorprendentemente familiari, nonostante siano trascorsi migliaia di anni. Un fantasma si presenta a un uomo in cerca di aiuto per ripristinare il rispetto della sua tomba. Una moglie arrabbiata fa ritorno dall’aldilà per esprimere il suo sdegno. I sacerdoti sono chiamati per gestire gli spiriti turbolenti. Questi sono alcuni esempi di storie di fantasmi recuperate da alcuni rinvenimenti. Tuttavia, le storie di fantasmi egizi si estendono ben oltre le tipiche case infestate e rivelano un complesso sistema di credenze legate all’Oltretomba.

I fantasmi nell’Antico Egitto erano considerati esseri potenti, capaci di influire sulla vita dei vivi. Gli antichi egizi credevano che gli spiriti dei defunti avessero bisogno di essere venerati e nutriti con offerte per garantire la loro benevolenza e il loro sostegno continuo. La mancanza di rispetto verso i fantasmi, o l’abbandono delle tombe, poteva portare a possibili vendette spettrali o maledizioni. I sacerdoti ricoprivano un ruolo fondamentale nell’interazione tra i vivi e i morti, agendo come intermediari per placare gli spiriti inquieti e garantire l’armonia tra i due mondi.
Inoltre, le credenze riguardo ai fantasmi egizi erano strettamente legate alla religione e alla mitologia. Gli egizi, infatti, credevano che le anime dei defunti fossero guidate verso l’Oltretomba da una divinità chiamata Anubi, il dio con la testa di sciacallo. Questo viaggio nell’aldilà era rappresentato come una traversata verso il Regno dei Morti, dove l’anima doveva affrontare prove e giudizi per determinare il suo destino eterno.
In definitiva, i fantasmi nell’Antico Egitto svelano un intricato intreccio tra il mondo dei vivi e dei morti, con gli spiriti defunti che esercitavano un’influenza significativa sulla vita quotidiana degli egizi. Questa visione sfumata tra i due mondi offriva un potente insight nelle complesse credenze dell’antico Egitto e nella loro profonda connessione con la vita ultraterrena.
Gli antichi egizi, in un mondo caratterizzato da un ordine pervasivo che abbracciava sia la vita terrena che quella ultraterrena, vivevano immersi in un universo dove tutto seguiva una precisa disposizione. Questo ordine, basato sul concetto di ma’at, o ordine cosmico, permeava ogni aspetto dell’esistenza, compresi i rapporti tra i vivi e i morti. La cosmovisione egizia sottolineava che ogni elemento dell’universo avesse il suo posto e la sua funzione assegnati, compresi i fantasmi, sebbene la loro presenza potesse spesso sfuggire all’osservazione diretta. Nonostante ciò, era ampiamente accettato che i defunti dovessero rimanere nell’aldilà, dove contribuivano al mantenimento dell’equilibrio e dell’armonia cosmica necessari per il corretto svolgimento di ma’at.
Cos’è esattamente il ma’at?
Il concetto del ma’at può essere interpretato sia come un principio fondamentale che governa l’ordine cosmico, sia come la personificazione di una divinità, spesso raffigurata con la simbolica piuma della verità sulla testa. Ma’at rappresenta l’idea che l’equilibrio, l’armonia e la giustizia sono essenziali per il corretto funzionamento dell’universo. Gli egizi ritenevano che il rispetto di ma’at fosse fondamentale per mantenere l’ordine sia in questa vita che nell’aldilà.
All’interno di questa visione del mondo basata su ma’at, i fantasmi non erano considerati delle entità disturbanti o fuori posto. Al contrario, essi erano parte integrante del ciclo della vita e della morte, contribuendo al mantenimento dell’equilibrio universale. Nonostante non fossero sempre visibili, gli spiriti defunti erano riconosciuti come forze importanti all’interno di questa visione della realtà.

In sintesi, gli antichi egizi vivevano in un universo altamente ordinato, in cui ogni cosa, compresi i fantasmi, aveva un ruolo da svolgere per garantire l’equilibrio e l’armonia. La filosofia di ma’at era il fondamento di questa comprensione del mondo e influenzava profondamente la loro relazione con il regno degli spiriti e con l’aldilà.
Indubbiamente, l’ideale di una distinzione chiara tra i mondi dei vivi e dei morti era una parte centrale della visione del mondo egizia, ma la realtà spesso differiva da questa concezione. Le situazioni in cui avveniva un crossover, cioè un’interazione tra i due mondi, rappresentavano un segnale evidente che qualcosa non funzionava correttamente. Queste interazioni non autorizzate richiedevano un intervento per ripristinare l’ordine cosmico.
Qualsiasi forma di commistione tra i vivi e i morti al di fuori dei rituali religiosi ufficiali, come preghiere e offerte, rappresentava una chiara indicazione che qualcosa non andava per il verso giusto. Poteva trattarsi di una sepoltura inadeguata, di un defunto dimenticato o di un parente vivente che non si era comportato in modo adeguato, causando l’insorgere di un fantasma triste o addirittura rabbioso. In ogni caso, era compito dei vivi correggere l’errore e ripristinare l’ordine.
Ad esempio, se un defunto era stato sepolto in modo improprio o trascurato, si riteneva che il suo spirito potesse essere scontento o disturbato. In questi casi, venivano intrapresi rituali per onorare il defunto e ristabilire l’equilibrio. Allo stesso modo, se un membro vivente della famiglia aveva comportamenti inappropriati o mancato di rispettare i doveri verso i defunti, si riteneva che avesse bisogno di un promemoria da parte degli spiriti. Questi fantasmi giustizieri avrebbero spinto il parente a correggere il suo comportamento.
In sintesi, sebbene la visione egizia del mondo desiderasse una chiara separazione tra i mondi dei vivi e dei morti, la realtà spesso implicava interazioni e problemi che richiedevano un intervento umano per ripristinare l’ordine e la pace tra i due regni.
Il Canto dell’arpista
Mentre esploriamo l’evoluzione delle credenze nell’aldilà dell’antico Egitto, emerge un quadro complesso e sfaccettato. Inizialmente, sembrava che la maggior parte degli Egizi abbracciasse una visione ortodossa dell’aldilà, un paradiso eterno e beatamente felice. Tuttavia, con il trascorrere dei secoli, questa prospettiva iniziò a incrinarsi, aprendo la strada a domande inquietanti sulla natura dell’aldilà e la sorte degli spiriti umani.
Un testo particolarmente rivelatore è il Canto dell’arpista, che, in un momento di profonda riflessione, esorta gli ascoltatori a vivere intensamente le loro vite terrene. La canzone mette in discussione l’idea di un aldilà garantito, poiché, come canta l’arpista, la morte è l’unica certezza, mentre ciò che accadrà dopo rimane un mistero irrisolto. Questa prospettiva pessimistica solleva interrogativi sul destino degli spiriti che non sono stati adeguatamente assistiti: sarebbero condannati a soffrire per l’eternità? Cosa significava essere un’anima dimenticata e non amata nell’oltretomba?
In effetti, l’esistenza stessa dei fantasmi nell’antico Egitto sembrava aver contribuito a questa evoluzione di atteggiamento. Se, come si credeva comunemente, tutti avrebbero goduto di una felice vita ultraterrena eterna, allora perché i fantasmi sarebbero tornati per tormentare il mondo dei vivi? Questa domanda provocatoria fece scuotere gli antichi Egizi.
Il Canto dell’arpista è stato rinvenuto nella tomba del re Antef, datato al periodo del Medio Regno, che si estende approssimativamente tra il 2040 e il 1782 a.C. e ha offerto una preziosa riflessione sulla brevità della vita umana e la certezza della morte. Questo testo, tramandato attraverso le epoche, ha fornito un’ispirazione intemporale su come affrontare il nostro passaggio sulla Terra.
L’antico testo di questo canto, conservato in un manoscritto del British Museum di Londra, noto come Papiro Harris 500, ci offre una profonda meditazione sulla morte e sulla vita. Questo testo, attribuito a un certo Antef, ci invita a riflettere sulla natura effimera della vita umana. Suggerisce che, nonostante le promesse di pace e giustizia nella tradizione, la morte resta un destino misterioso e incerto per gli esseri umani. Il testo enfatizza l’importanza di vivere appieno ogni giorno finché ci è concesso. Incoraggia a godere dei momenti felici e a dimenticare le preoccupazioni, suggerendo che questa sia l’unica soluzione che la vita può offrire. Questo messaggio di vivere con gratitudine e gioia è un richiamo a non dare mai per scontato il tempo che abbiamo.

Il fatto che questa meditazione sulla vita e sulla morte sia stata conservata in una raccolta di canti d’amore suggerisce l’importanza di abbracciare la bellezza e l’effimero della vita amorosa, rendendola parte integrante del nostro percorso. Nonostante le incertezze e i misteri della morte, il testo invita a celebrare la vita e a trovare significato nei momenti felici che essa offre. Questo antico testo ci ricorda che, nonostante le nostre domande sull’aldilà e sulla morte, l’importante è vivere appieno la vita che abbiamo, apprezzando le gioie e le relazioni che essa ci offre. La morte rimane un mistero, ma la vita è un dono prezioso che meritiamo di celebrare.
Nel Canto dell’arpista, il messaggio centrale è un richiamo alla fragilità della vita e all’importanza di sfruttare al meglio il tempo a disposizione. L’autore del componimento invita il suo pubblico a riflettere sulla condizione umana, ricordando che la morte è inevitabile e imprevedibile. Questo appello a non sprecare il tempo è una lezione di saggezza che si è mantenuta rilevante attraverso i secoli, offrendo un prezioso spunto di riflessione per tutte le generazioni.

Il messaggio contenuto ci ricorda quanto sia importante vivere appieno ogni giorno, apprezzare le relazioni con gli altri e perseguire i nostri obiettivi e passioni. La morte, sebbene inevitabile, può fungere da catalizzatore per un apprezzamento più profondo della vita stessa. Il testo ci spinge anche a riflettere su come utilizziamo il nostro tempo e a cercare un significato e un valore in ogni istante che viviamo.
Oggi, secoli dopo la sua composizione originale, il Canto dell’arpista continua a ispirare coloro che si sforzano di abbracciare la vita con gratitudine e consapevolezza, tenendo a mente la preziosa lezione della brevità della nostra esistenza. La saggezza di questo antico testo ci ricorda di vivere la vita con passione, compassione e gratitudine, affrontando le sfide con coraggio e cercando di lasciare un’impronta positiva nel mondo.
«Fate una vacanza! E non stancatevi di giocare! Perché a nessuno è permesso di portare con sé i propri beni, e nessuno di coloro che lasciano questa vita torna mai più indietro.»
dal Canto Canzone dell’arpista del Medio Regno
Quindi, un uomo scettico si confrontò direttamente con un fantasma, suggerendo che l’anima sfortunata era intrappolata in un aldilà cupo e statico. «L’oscurità è davanti ai tuoi occhi ogni giorno», ha dichiarato, esprimendo il suo disincanto riguardo all’aldilà.
Questi cambiamenti di atteggiamento hanno reso l’aldilà egizio un luogo potenzialmente spaventoso, lontano dalla visione idilliaca che un tempo era predominante. A questi sviluppi si è accompagnato un aumento della preoccupazione per i morti e gli spiriti, nonché un crescente senso di pietà personale. Le persone hanno iniziato a sviluppare una relazione personale con gli dei e con gli spiriti defunti, sperando di garantire il loro ricordo e la loro cura anche in un aldilà incerto. La tomba, in particolare, ha assunto un’importanza senza precedenti, essendo vista come la dimora eterna dell’anima, un rifugio per proteggere gli spiriti dimenticati.
In definitiva, mentre la visione dell’aldilà egizio ha attraversato cambiamenti significativi nel corso dei secoli, una cosa rimane costante: il desiderio umano di comprendere e connettersi con il mondo oltre la vita terrena. La concezione dell’aldilà come un luogo potenzialmente spaventoso ha incanalato la riflessione sugli aspetti più complessi della vita ultraterrena, promuovendo una maggiore introspezione e una maggiore preoccupazione per gli spiriti che vi dimorano.
La concezione della morte per gli antici Egizi
La concezione egizia della morte è stata caratterizzata da una visione duratura che raffigurava l’aldilà come un paradiso, una continuità della vita sulla Terra, ma priva di delusioni, perdite o angosce. Contrariamente al detto “non puoi portarlo con te”, gran parte della storia egizia abbracciava il concetto di “lo tieni per sempre”, poiché credevano che alla morte ci si sarebbe ritrovati nel paradiso noto come il Campo dei Canneti.
Tuttavia, nel corso delle epoche, questa visione dell’aldilà ha subito cambiamenti, con periodi in cui è stata più ampiamente accettata e altri in cui è stata meno popolare, ma in generale ha mantenuto una notevole continuità. Questa concezione è stata intrecciata con una profonda comprensione degli spiriti disincarnati, noti come fantasmi, che, più della visione dell’aldilà stessa, sono rimasti immutati dalle prime testimonianze fino alla fine della storia dell’antico Egitto. I fantasmi nell’Antico Egitto erano considerati una realtà tanto quanto qualsiasi altro aspetto dell’esistenza umana.
In questo modo, la cultura egizia ha sviluppato una prospettiva unica sulla morte e sull’aldilà, con una fede salda nella continuazione dell’anima e nella presenza dei fantasmi nell’aldilà, creando un legame significativo tra il mondo dei vivi e quello dei defunti.

«Questi approcci includevano l’uso di oracoli e magia, lettere ai morti, sogni e altre forme di divinazione, culti degli antenati, e il culto di divinità speciali. Si credeva che la società fosse formata da quattro gruppi – gli dèi, il re, i morti benedetti e l’umanità – che condividevano determinati obblighi morali e il dovere di interagire per mantenere l’ordine del mondo. L’esistenza di questo ordine, e l’ipotesi che esso fosse costantemente minacciato, era una premessa fondamentale delle credenze egizie.»
Ann Rosalie David, egittologa (da Religion and Magic in Ancient Egypt, 2002)
Al centro della cultura egizia risplendeva il concetto di ma’at, che abbracciava il significato di armonia e equilibrio e permeava praticamente ogni aspetto della loro esistenza. Tuttavia, tra le manifestazioni più significative di questo principio, vi era la solenne cerimonia di sepoltura dei defunti. Gli antichi egizi ritenevano che il percorso dell’essere umano fosse un sentiero unidirezionale che si estendeva dalla nascita, attraverso la morte, e verso l’aldilà.
Con l’intento di agevolare il viaggio dell’anima verso il mondo spirituale e assicurare che potesse fare ritorno sulla Terra in modo pacifico, gli egizi adornavano le tombe con pitture murali, iscrizioni e statue. Questi monumenti funerari non solo celebravano la vita e gli exploit del defunto ma garantivano anche un’adeguata guida nell’oltretomba. Si aspettavano, tuttavia, che lo spirito intraprendesse il suo viaggio verso il regno dei morti in tempi relativamente brevi.
L’insolita apparizione di un fantasma e, ancor di più, la sua interazione con i vivi, costituivano un segno certo che l’ordine naturale delle cose era stato turbato. La causa più comune di questo turbamento era attribuita all’insoddisfazione dello spirito per la sepoltura del suo corpo, lo stato della sua tomba o la mancanza di rispettoso ricordo da parte dei vivi. La convinzione che un defunto avesse bisogno di essere onorato adeguatamente e che la sua memoria dovesse essere mantenuta intatta rappresentava una parte essenziale del mantenimento dell’equilibrio e dell’armonia nella vita degli antichi egizi.
Sviluppo delle credenze sull’Anima nell’Antico Egitto
Nell’antico Egitto, la concezione dell’anima e del suo destino nell’aldilà rappresenta una prospettiva complessa e in continua evoluzione. Originariamente, gli egizi vedevano l’anima come un’entità singola e indivisibile. Questa anima, nota come Khu, rappresentava l’essenza eterna di un individuo destinata a sopravvivere alla morte e a viaggiare nell’aldilà.
Tuttavia, l’antico Egitto copre un vasto arco di storia, con molteplici epoche, influenze culturali e cambiamenti religiosi. È quindi logico attendersi che le credenze religiose abbiano subito variazioni significative nel corso dei millenni. In particolare, la comprensione dell’anima umana si è evoluta da quella di un’entità singola a una più complessa, che coinvolgeva fino a nove diverse componenti, a volte più, a volte meno, a seconda dell’era storica dell’antico Egitto.

Tra queste componenti figuravano il Ka, un aspetto spirituale che incarnava la personalità individuale; il Ba, una figura alata con testa umana e corpo d’uccello, capace di spiccare il volo tra il mondo terreno e il cielo; lo Shuyet, una sorta di ombra del sé; e l’Akh, l’aspetto immortale dell’anima, talvolta considerato anche come un aspetto spettrale. Secondo il saggio Religion and Magic in Ancient Egypt (2002) dell’egittologa britannica Ann Rosalie David, l’Akh spesso si occupava degli affari dei vivi.
Per assicurare che questi aspetti immateriali dell’anima potessero navigare in sicurezza tra il mondo dei vivi e l’aldilà, era essenziale che il corpo fisico, noto come Khat, venisse preservato il più accuratamente possibile. Questa convinzione profonda sottostava alla pratica della mummificazione, uno degli aspetti più iconici della cultura egizia.
Quando una persona moriva, la sua famiglia portava il corpo dagli imbalsamatori, antenati delle moderne agenzie funebri. Le opzioni di imbalsamazione e sepoltura variavano in base alle risorse finanziarie della famiglia. Esistevano tre categorie principali, con diverse spese e servizi:
- un’opzione di alto livello che collegava il defunto al dio Osiride;
- un’opzione intermedia che includeva la mummificazione, riti funerari e una bara più modesta;
- un’opzione economica che offriva servizi minimi.
La scelta effettuata dalla famiglia avrebbe determinato il tipo di bara fornita, i rituali funerari e la preparazione del corpo. Gli imbalsamatori avrebbero presentato queste opzioni alle famiglie in lutto, riconoscendo che la scelta avrebbe potuto avere un impatto significativo non solo sulla sorte dell’anima del defunto nell’aldilà, ma anche sulla vita dei parenti sopravvissuti nei mesi a venire. Se, ad esempio, una famiglia poteva permettersi l’opzione di alto livello associata a Osiride, ma sceglieva invece di risparmiare su opzioni meno costose, lo spirito del defunto aveva il diritto di tornare e lamentarsi. In questi casi, gli dèi concedevano all’Akh il permesso di tornare sulla Terra per correggere l’ingiustizia subita.
Tuttavia, gli Akh potevano fare ritorno anche per altre ragioni oltre a una sepoltura economica o a riti funerari insufficienti. Qualsiasi torto o offesa commessi contro il defunto durante la sua vita, se non erano stati espiati in vita, potevano costituire motivo di infestazione dopo la sua morte. La complessa rete di credenze egizie sull’anima, sulla morte e sull’aldilà riflette l’importanza che attribuivano alla connessione tra i mondi dei vivi e dei defunti, cercando di mantenere l’armonia in entrambi gli universi.
Il Ritorno degli Spiriti
Le credenze e le pratiche legate all’aldilà nell’antico Egitto presentano una complessa evoluzione attraverso la storia millenaria di questa civiltà. Sebbene le credenze possano variare nel tempo e nelle diverse regioni dell’antico Egitto, alcuni temi comuni persistono attraverso i secoli.
Uno di questi temi ricorrenti riguarda il ruolo dei beni e delle offerte nella vita dopo la morte. Inizialmente, si credeva che i defunti dovessero essere sepolti con un assortimento di beni, che sarebbero stati portati con loro nell’aldilà. Secondo il libro Religion and Magic in Ancient Egypt (2002), questa pratica includeva la disposizione di offerte alimentari regolari sulla tomba del defunto, allo scopo di nutrire la sua forma spirituale. Tuttavia, con il passare del tempo e l’aumento del numero di defunti, l’idea di dover visitare costantemente tutte le tombe per lasciare cibo per gli spiriti dei propri cari si rivelò un onere insostenibile.
Alcune persone risolsero questo problema pagando preti devoti che si occupassero a tempo pieno di questo compito. Altri, invece, utilizzavano iscrizioni cariche di magia per fornire cibo ai loro cari defunti per l’eternità. Questo sottolinea l’importanza dell’offerta di cibo e del sostegno spirituale nell’aldilà, anche se le pratiche variano in base alle risorse e alle convinzioni individuali.
Oltre alle offerte alimentari e ai beni funerari, vi era anche la questione del lavoro nell’aldilà. Gli antichi egizi credevano che, nell’Oltretomba, i defunti sarebbero stati chiamati a svolgere compiti e lavori simili a quelli della loro vita terrena, come la raccolta del grano. In periodi successivi, emerse la pratica di seppellire i morti con piccole figurine umane, comunemente chiamate ushabti (o shabti), che avrebbero rappresentato i servi del defunto nell’aldilà, pronti a svolgere ogni incarico a lui affidato. Questi ushabti erano considerati una sorta di forza lavoro spirituale.
Tuttavia, è importante notare che in epoche precedenti, questa pratica aveva una dimensione più oscura. Secondo quanto riportato in un articolo sul sito web dell’American Society for Overseas Research, i primi faraoni erano accompagnati nella tomba da sacrifici umani. Questi riti erano parte di una credenza che richiedeva la presenza di persone reali nell’aldilà per servire il faraone defunto. Questi sacrifici umani costituivano una manifestazione estrema delle credenze legate al lavoro nell’aldilà, che si sono poi evolute in pratiche più simboliche e meno cruente con l’uso delle figurine ushabti.
In sintesi, le credenze sull’aldilà e sugli “spiriti umani” nell’antico Egitto sono caratterizzate da una complessa evoluzione nel corso della sua lunga storia. Mentre alcune tradizioni come le offerte di cibo e l’impiego di ushabti persistono come temi comuni, le pratiche e le credenze si sono adattate e modificate nel corso dei millenni, riflettendo la complessità dell’antica cultura egizia.
Lettere ai morti
Le persone dell’antico Egitto avevano molteplici modi per entrare in contatto con i propri cari defunti e chiedere il loro aiuto o assistenza. Sebbene molte storie riguardino fantasmi che apparivano direttamente davanti a una persona, questa non era l’unica modalità di comunicazione tra i vivi e i morti. Come sottolineato in un articolo pubblicato sul sito web della University College di Londra, c’era una pratica diffusa di scrivere Lettere ai Morti. Queste lettere erano un mezzo attraverso il quale i parenti sopravvissuti potevano rivolgersi alle loro controparti decedute, chiedendo favori o esprimendo affetto e preoccupazione. Mentre poteva sembrare un’enorme richiesta per gli spiriti, il fatto che ricevessero queste lettere implicava che erano considerati potenti e degni di attenzione.
Inoltre, la ricezione di queste lettere poteva indicare che lo spirito defunto aveva condotto una vita adeguata nell’aldilà e aveva guadagnato un certo status spirituale, il che gli avrebbe permesso di presentare il caso davanti ad entità spirituali più potenti. Questa pratica era comune in Egitto e si estendeva per migliaia di anni, dimostrando quanto fosse radicata nella cultura egizia.
Le Lettere ai Morti avevano un formato generale che iniziava con alcune chiacchiere, spesso riguardanti il benessere dell’autore della lettera e notizie sulla vita quotidiana. Successivamente, l’autore della lettera avrebbe avanzato la richiesta, che poteva variare da richieste relative alla salute di una persona, speranze per la nascita di un bambino (spesso maschio) o assistenza in questioni legali. Queste richieste riflettevano le preoccupazioni e i bisogni dei vivi, che cercavano il sostegno dei propri cari defunti nell’aldilà.




I fantasmi nell’Antico Egitto: minacciosi e vendicativi per i Vivi
Mentre alcuni fantasmi nell’antico Egitto sembravano manifestarsi solo per chiedere aiuto o esprimere la loro tristezza, altri avevano una disposizione più irascibile. Gli antichi egizi potevano attribuire i disastri e le sfortune del mondo reale alle attività di questi invisibili ma irrequieti spiriti, convinti che gli spiriti vendicativi potessero causare problemi ai vivi.
Prendiamo, ad esempio, un uomo sfortunato vissuto attorno alla XX dinastia durante il Medio Regno. Anche se la sua situazione specifica rimane oscura, è evidente che stava attraversando tempi difficili. Come riportato nel libro The Attitude of the Ancient Egyptians to Death and the Dead (letteralmente traducibile in L’atteggiamento degli antichi egizi nei confronti della morte e dei morti) del 1935, scritto dall’egittologo britannico Sir Alan Henderson Gardiner (1879-1963), l’uomo sfortunato si lamerntò chiedendo cosa mai avesse fatto di male per essere così tanto perseguitato dalla malasorte; dopotutto affermava di essere stato un marito amorevole e fedele durante la sua vita e di non essere mai “entrato in una casa straniera”.
Ma dopo la sua morte, lo spirito di questo uomo aveva evitato accuratamente quelle “cattive case” (bordelli) per anni, nonostante ritenesse che non fosse giusto che una persona come lui dovesse farlo. Non è del tutto chiaro quale danno si aspettasse che la sua defunta gli moglie avesse inflitto, ma era chiaramente una questione seria e aveva a che fare con una serie di sventure che dovevano essergli capitate.
Le Lettere ai Morti costituiscono un corpo di antichi testi egizi che abbracciano un ampio periodo, spaziando dall’Antico Regno al Periodo Tardo. Queste lettere rappresentano un modo unico e straordinario attraverso cui gli antichi egizi comunicavano con i loro cari defunti, chiedendo il loro aiuto o intercessione per affrontare problemi e sfide nella vita terrena, che potessero riguardare questioni di eredità, malattie o fertilità. Queste lettere sono state rinvenute su una vasta gamma di supporti materiali, che includono ciotole, figurine, tessuti di lino, papiro, giare, ostraca e stele di pietra. La diversità di supporti testimonia l’ampia diffusione di questa pratica e la sua profonda radicazione nella cultura egizia.
Sia uomini che donne potevano essere i mittenti o i destinatari di queste lettere, e i testi generalmente seguivano una struttura comune:
- Rivolgersi al defunto per nome, spesso incluso il suo titolo e la parentela con il richiedente.
- Un saluto al defunto, spesso formulato come un’offerta, un augurio o un’invocazione.
- L’esposizione del problema specifico, spesso legato a questioni ereditarie, malattie o fertilità.
- Una richiesta per ottenere il risultato desiderato.
Risulta difficile stabilire il numero esatto di queste lettere, con stime che variano da diciannove a ventiquattro. Molte di esse hanno una provenienza sconosciuta, ma quelle conosciute sono state spesso rinvenute in cimiteri e tombe egizie. Ve ne presento alcune.
La lettera ai morti di Shepsi (Ciotola nella Tomba Qau 7695)
Un esempio notevole è la ciotola Qau, ritrovata nella tomba Qau 7695, al termine di una camera funeraria. Questa ciotola è conservata presso il Petrie Museum di Londra, ed è datata al Primo Periodo Intermedio.

La ciotola Qau è un oggetto straordinario che contiene due lettere, scritte sia sul lato interno che su quello esterno del recipiente. Entrambe le lettere sono state composte da Shepsi, il quale rivolge una richiesta di aiuto a suo padre per una questione di eredità nella parte interna della ciotola e, sulla parte esterna, a sua madre per protezione dalla malattia. Questo esempio illustra la varietà di problemi affrontati attraverso queste Lettere ai Morti e la loro importanza nella vita quotidiana degli antichi egizi. La ciotola stessa funge da tramite tra i due mondi, dove il confine tra il terreno e il trascendente si fa più sottile.
«(riga 1) Shepsi parla con suo padre Iinekhenmut.
(riga 2) Questo è un ricordo del tuo viaggio nella prigione (?), nel luogo dove si trovava il figlio di Sen, Hetepu, quando portasti (riga 3) la zampa anteriore di un bue, e quando questo tuo figlio venne con Newaef, e quando ti disse: Benvenuti a tutti e due. Siediti e mangia (riga 4) carne! Devo essere offeso in tua presenza, senza che tuo figlio abbia fatto o detto nulla, da mio fratello? (Eppure) fui io a seppellirlo, lo trassi fuori dalla prigione (?), (riga 5) lo collocai fra i suoi sepolcri deserti, benché gli fossero dovute in prestito trenta misure di orzo raffinato, e un fascio di indumenti, sei misure di orzo pregiato, (riga 6) una palla (?) di lino e una coppa, anche se ho fatto per lui ciò che non era necessario fare. Ha fatto questo contro questo tuo figlio in modo malvagio, malvagio (riga 7) - ma tu avevi detto a questo tuo figlio: "Tutta la mia proprietà appartiene a mio figlio Shepsi insieme ai miei campi". Ora (riga 8) il figlio di Sher, Henu, è stato preso. Vedi, è con te nella stessa città. (riga 9) Ora devi andare in giudizio con lui, poiché i tuoi scribi sono con (te) nella stessa città. (riga 10) Può un uomo essere gioioso, quando le sue lance vengono usate [contro suo figlio (??).»
Questi testi, scritti con cura e amore, rivelano la profonda spiritualità degli antichi egizi e la loro convinzione nella comunicazione tra i vivi e i morti. La ciotola in ceramica diventa un canale attraverso il quale Shepsi spera di ottenere l’assistenza e la protezione dei suoi genitori defunti nelle sfide della sua vita terrena.
Inoltre, questo esempio dimostra come le credenze egizie nell’aldilà abbiano influenzato le pratiche quotidiane, come la comunicazione con gli spiriti dei defunti. La ciotola in ceramica diventa un simbolo tangibile di questo legame speciale tra il mondo materiale e spirituale, evidenziando l’importanza di tali credenze nella vita dell’antico Egitto.
Petizione di un lavoratore del tempio di Amon (Papiro dell’Oracolo di Brooklyn)
Un altro esempio di questa pratica è rappresentato dal Papiro dell’Oracolo di Brooklyn, un documento straordinario dell’antico Egitto che rivela la petizione di un uomo di nome Pemou a nome di suo padre, Harsiese. Questo straordinario documento getta luce sulle intricate pratiche religiose e burocratiche che regolavano il servizio sacerdotale nei templi egizi.
Harsiese, un sacerdote al servizio del potente dio Amun-Ra a Karnak, aveva un desiderio insolito. Egli aspirava a lasciare il servizio di Amun-Ra e unirsi al sacerdozio del tempio di Montu-Re-Horakhty, situato nelle vicinanze. Tuttavia, poiché il personale di un tempio era considerato come una sorta di “proprietà” della divinità a cui serviva, qualsiasi cambiamento nel servizio sacerdotale richiedeva il consulto della divinità stessa. Pemou, figlio di Harsiese, si rivolse al dio in nome di suo padre, in cerca di consiglio. Il dio, in un evento straordinario, rispose favorevolmente alla richiesta di Harsiese. Per commemorare questa decisione divina, Pemou fece redigere e decorare il Papiro dell’Oracolo di Brooklyn.
Questo antico manoscritto offre una preziosa finestra su un antico rito religioso e sulle cerimonie legate a questo evento. Il papiro stesso raffigura la processione di un’immagine di Amon-Ra, la cui importanza è testimoniata dai frammenti del suo santuario visibili sopra i pali portanti, portati con devozione dai sacerdoti. Due ventagli di piume di struzzo sovrastano l’immagine di Amon-Ra, proteggendolo dai raggi solari.

Nella rappresentazione, i membri di alto rango del sacerdozio tebano sfilano in processione, indossando maestosi costumi di pelle di leopardo e mostrando i loro rispettivi nomi e titoli scritti sulle cinture delle spalle. In particolare, Montuemhat, il quarto profeta di Amon-Ra, figura prominente nella processione. Montuemhat era non solo un alto sacerdote, ma anche il sindaco di Tebe, posizione di grande potere nell’antico Egitto. Il suo status è ulteriormente evidenziato dalle sue numerose e straordinarie sculture, così come dalla grandezza della sua tomba nella necropoli tebana.
La figura con le piume di struzzo in testa è il sommo sacerdote lettore, incaricato di recitare il rito processionale registrato sul rotolo di papiro che tiene davanti a sé. Il visir Nespeqashuty, il funzionario più importante dell’antico Egitto, svolge un ruolo significativo nella rappresentazione, indossando un costume ufficiale che include una caratteristica gonna alta con spalline allacciate alla caviglia. Dopo la stesura del papiro, ben cinquanta sacerdoti, che avevano assistito ai fatti, apposero le loro firme. Questo frammento contiene le firme, i titoli e le genealogie di sei di questi funzionari, tra cui quelli di Montuemhat e Nespeqashuty. Ogni funzionario ha scritto la propria annotazione, il che spiega la varietà di stili di scrittura presente in questa sezione del papiro.
Il Papiro dell’Oracolo di Brooklyn è quindi un documento di straordinario valore storico, che ci offre uno sguardo in profondità nelle complesse cerimonie religiose e amministrative dell’antico Egitto e testimonia la stretta interazione tra il mondo umano e quello divino.
Lettera di un vedovo per placare l’ira della moglie defunta (Coppa di Berlino 22573)
Le Lettere ai Morti gettano luce su una parte affascinante della vita e delle credenze degli antichi egizi, mostrando come il rapporto tra i vivi e i morti fosse intriso di profonda spiritualità e interconnessione tra i due mondi. Questi antichi documenti sono testimonianze preziose della complessità della cultura egizia antica e della sua straordinaria concezione del mondo.
Un singolare e celebre esempio di infestazione spirituale nell’antico Egitto è rivelato in una toccante lettera, la cui autenticità è stata riscontrata all’interno di una tomba del periodo del Medio Regno. Questo antico documento rivela una storia che affonda le radici nell’amore e nel lutto di un vedovo, la cui anima era legata in modo inestricabile a quella della moglie defunta.
La coppa di Berlino rappresenta un’autentica gemma tra le epistole dedicate ai defunti. Se si escludono i casi rari, come una lettera scritta sul retro di una stele, essa costituisce l’unico reperto in cui il testo è abbinato a un’importante componente iconografica. Il testo inciso sulla coppa di Berlino, con la sua elegante semplicità, sollecita delle profonde riflessioni sul complesso rapporto tra i vivi e i defunti, una tematica che, senza dubbio, doveva caratterizzare il culto degli antenati nell’antico Egitto.

In questo affascinante resoconto, il vedovo, con il cuore colmo di affetto e rimpianto, scrive una lettera indirizzata direttamente allo spirito della sua amata moglie. La tomba stessa si presenta come un ponte tra i due mondi: il mondo dei vivi e l’aldilà, un luogo dove gli spiriti dei defunti si ritrovano a risiedere. È in questo contesto che il vedovo decide di condividere con sua moglie le sue emozioni, speranze e preoccupazioni, poiché credeva sinceramente che l’aldilà fosse una dimensione in cui lo spirito della moglie potesse ricevere e comprendere il suo messaggio.
Nella lettera, il vedovo esprime il profondo dolore causato dalla perdita della moglie e il suo desiderio di mantenere un legame spirituale con lei nell’aldilà. Manifesta il desiderio di mantenere un dialogo, una connessione continua tra i due mondi. La lettera rivela un’intima comprensione delle credenze egizie, secondo le quali l’anima del defunto poteva mantenere una presenza attiva e interattiva nel mondo dei vivi.
Ecco cosa scrive:
«Che cosa malvagia ti ho fatto per arrivare a questo passo malvagio? Cosa ti ho fatto? Ma quello che mi tu hai fatto è avermi messo le mani addosso, anche se non avevo nulla di male nei tuoi confronti. Da quando ho vissuto con te come tuo marito fino ad oggi, cosa ti ho fatto da dover nascondere? Quando ti ammalasti, feci chiamare un maestro medico... Ho passato otto mesi senza mangiare e senza bere come un (normale) uomo. Ho pianto molto insieme alla mia famiglia davanti alla tua salma. Ti ho dato delle vesti di lino per avvolgerti e non ho tralasciato alcun beneficio che dovesse essere compiuto per te. Ed ora ecco, ho passato tre anni da solo senza entrare in una casa, anche se non è giusto che uno come me debba farlo. Questo ho fatto per amor tuo. Ma ecco, tu non distingui il bene dal male.»
La testimonianza del vedovo svela anche una profonda fiducia nella forza delle emozioni e nella continuità dell’amore anche oltre la morte. Si ritiene che gli antichi egizi credessero che il potere dell’amore e dell’affetto fosse così forte da superare la barriera tra la vita e la morte stessa, consentendo agli spiriti di ritornare e confortare i loro cari. Questa lettera è un affascinante esempio di come le credenze sull’aldilà e la comunicazione con gli spiriti abbiano plasmato le vite e le relazioni delle persone nell’antico Egitto. Rappresenta un tributo alla forza dell’amore e della connessione umana, e come tali sentimenti potessero superare il velo tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti nell’antico Egitto. La lettera testimonia la profonda spiritualità e la visione unica del rapporto tra il mondo dei vivi e l’aldilà che caratterizzavano la cultura egizia.

L’uomo sembrava aver affrontato una serie di difficoltà e sofferenze che, a suo avviso, potevano essere spiegate soltanto attraverso l’intervento della sua defunta moglie. Nell’antico Egitto, le malattie e la sfortuna erano spesso attribuite a diverse cause, tra cui l’azione degli dei, che potevano infliggere tali prove per insegnare una lezione o punire per qualche peccato commesso. Allo stesso modo, si credeva che spiriti maligni potessero causare problemi, e la rabbia o il risentimento dei morti potessero anche influire negativamente sulla vita dei vivi.
In questo specifico caso, il vedovo asseriva di aver rispettato in modo impeccabile il legame con la sua defunta moglie anche dopo la sua morte. Egli arrivò persino a sostenere di aver evitato di frequentare luoghi come i bordelli nei tre anni successivi alla sua scomparsa. È importante notare che i bordelli erano praticamente inesistenti in Egitto prima del periodo tardo, pertanto il riferimento del vedovo potrebbe essere associato a luoghi simili, come bar o taverne, dove potevano essere presenti donne con ruoli simili a quello delle prostitute. Tuttavia, in generale, vi sono poche prove concrete dell’esistenza della prostituzione nell’antico Egitto.
Questo contesto fornisce un’interessante prospettiva sulla mentalità e sulle credenze dell’epoca, poiché il vedovo attribuiva le sue difficoltà personali alla possibile interferenza degli spiriti o degli dei, e faceva del suo meglio per onorare la memoria della sua defunta moglie, seguendo scrupolosamente le norme sociali dell’epoca. In una situazione simile, in cui un individuo si trovava ad affrontare difficoltà o sofferenze inspiegabili, la pratica comune nell’antico Egitto era quella di rivolgersi a un sacerdote o a una donna saggia, una sorta di veggente, per cercare un intervento divino. In alternativa, la persona poteva decidere di recarsi in un tempio, dove si credeva potesse avvicinarsi agli dei o ai propri parenti defunti per ottenere una visione del futuro o dei consigli.

Ann Rosalie David, un’autorità nell’ambito degli studi sull’antico Egitto, osserva che alcuni templi erano noti per essere centri di incubazione dei sogni. In queste strutture speciali, i devoti avevano l’opportunità di passare la notte con l’obiettivo di comunicare con gli dei o con i propri antenati defunti, sperando di ricevere una visione o una rivelazione divina che potesse offrire soluzioni ai loro problemi o ai loro interrogativi futuri. Tuttavia, quando queste opzioni non portavano i risultati desiderati o quando le circostanze lo richiedevano, i vivi potevano ricorrere alla scrittura di una lettera. Questa pratica era un tentativo di stabilire una comunicazione con il mondo degli spiriti o con gli dei, fornendo loro una testimonianza scritta delle proprie richieste, preghiere o preoccupazioni.
Queste lettere ai morti o agli dèi erano considerate un mezzo per cercare aiuto e guida divina quando la comunicazione diretta non era possibile o aveva fallito. In generale, questa serie di pratiche riflette l’importanza dell’interazione tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti o degli dei nell’antico Egitto, dove la ricerca di consigli, conforto o soluzioni per i problemi era un aspetto significativo della vita quotidiana.
«Un importante mezzo di contatto con coloro che erano passati all’aldilà era fornito dalle cosiddette “lettere ai morti”. Le persone che ritenevano di aver subito un’ingiustizia potevano scrivere una lettera ai morti, chiedendo loro di intercedere a favore dello scrittore. Se una persona vivente con dei problemi non aveva un patrono potente in questo mondo, poteva chiedere l’aiuto dei morti. Tuttavia, relativamente
poche di queste lettere sono sopravvissute (meno di venti in un periodo di circa mille anni), anche se è possibile che si tratti solo di una piccola parte della società alfabetizzata.È possibile che esistesse una tradizione orale molto più ampia per trasmettere gli stessi sentimenti ai morti. Le lettere erano collocate nella cappella della tomba, a lato del tavolo, dove lo spirito del defunto le avrebbe trovate quando veniva a prendere il cibo. Le richieste contenute nelle lettere sono varie: alcuni chiedevano aiuto contro nemici vivi o morti, in particolare nelle controversie familiari; altre chiedevano assistenza legale a sostegno di un richiedente che doveva comparire davanti al tribunale divino nel Giorno del Giudizio; altri ancora implorano benedizioni o benefici speciali.»
Ann Rosalie David, egittologa (da Religion and Magic in Ancient Egypt, 2002)
Nell’antico Egitto, la concezione dell’aldilà era tale che i morti erano considerati una parte ancora attiva e influente del mondo spirituale. In questa visione, i defunti non cessavano di esistere una volta passati a miglior vita, ma continuavano a mantenere una presenza significativa nell’aldilà. Questo concetto, radicato nelle credenze religiose e culturali egizie, aveva profonde implicazioni per la vita dei vivi e le loro pratiche quotidiane.

Poiché i morti erano visti come esseri ancora presenti nell’aldilà, i vivi sentivano di poterli contattare in qualsiasi momento ne avessero bisogno. La separazione tra il mondo terreno e l’aldilà non rappresentava una barriera insuperabile; al contrario, si credeva che fosse possibile instaurare una comunicazione con gli spiriti dei defunti. La dimensione fisica della morte non implicava la fine dell’esistenza dell’anima, ma piuttosto una trasformazione e un passaggio a una forma spirituale.
Questo concetto profondamente radicato nella cultura egizia ha ispirato una serie di pratiche, tra cui l’invocazione degli spiriti degli antenati per ottenere consigli, guida o protezione. Si poteva pregare o rivolgersi ai defunti attraverso cerimonie religiose o offerte, chiedendo il loro intervento o cercando la loro benevolenza. L’idea che i morti potessero essere presenti nell’aldilà e interessati alle vicende dei vivi era un elemento chiave nelle credenze e nelle pratiche dell’antico Egitto, che ha avuto un impatto profondo sulla vita quotidiana e sul modo in cui le persone affrontavano i problemi e le sfide.
«La morte per il defunto egizio che aveva subito i riti della beatificazione, era un prolungamento della vita e, come indica la pratica dei banchetti festivi nelle cappelle delle tombe, il rapporto tra i vivi e i morti non è sempre stato un affare tetro. I vivi potevano comunicare con i morti per mezzo di lettere, e nell’Insegnamento di Amenemhet, il re defunto viene concepito come un re morto che dà consigli al figlio e al suo successore. I fantasmi egizi non erano tanto esseri inquietanti, ma personalità alle quali i vivi reagivano in modo pragmatico.»
– William Kelly Simpson (1928-2017), tratto da The Literature of Ancient Egypt, 1972
Secondo quanto riportato da Archaeology, c’è un’altra “lettera” di un vedovo di nome Butehamun, che chiese alla bara della sua defunta moglie Ikhtay di fungere da intermediaria con lo spirito della consorte. Sebbene non siano chiari i dettagli specifici dei problemi di Butehamun, emerge chiaramente che credeva che la causa potesse essere la defunta moglie, forse perché si era risposato dopo la sua morte. Questa convinzione che gli spiriti dei defunti potessero influire negativamente sulla vita dei vivi gettava un’ombra di preoccupazione e incertezza sull’aldilà egizio e le relazioni tra i vivi e i morti.
Attività dei fantasmi nell’Aldilà
Nell’antico Egitto, le credenze sull’aldilà e sugli spiriti umani hanno attraversato un lungo percorso di evoluzione, ma alcuni elementi chiave sono rimasti costanti nel corso dei secoli. Una di queste costanti era l’idea che i defunti avrebbero dovuto portare con sé offerte di cibo nell’aldilà per sostenere la loro forma spirituale. Questa pratica era fondamentale per garantire che gli spiriti dei morti potessero continuare a prosperare nell’aldilà.
Con il passare del tempo e l’aumento del numero di defunti, mantenere questa tradizione divenne un compito sempre più gravoso. Girare tra le tombe e lasciare offerte sui sepolcri di tutti i propri familiari poteva diventare un onere insostenibile. Alcuni individui ricorrevano all’impiego di preti devoti, incaricati di svolgere questo lavoro a tempo pieno per conto delle famiglie. Altri, invece, utilizzavano iscrizioni e formule magiche per garantire che i loro cari morti ricevessero costantemente il cibo di cui avevano bisogno per l’eternità.

Oltre alle offerte di cibo, sorgeva un’altra questione significativa: il lavoro nell’aldilà. Nell’antico Egitto, si credeva che l’aldilà fosse una sorta di mondo parallelo, in cui i morti avrebbero continuato a svolgere compiti simili a quelli che avevano svolto durante la loro vita terrena. Ad esempio, la raccolta del grano era una delle attività che si prevedeva che i defunti avrebbero dovuto svolgere nell’aldilà.
In periodi successivi, questa credenza diede origine alla pratica di seppellire i morti con piccole figurine umane, note come ushabti. Si credeva che queste figurine prendessero vita nell’aldilà e che avrebbero eseguito tutte le attività lavorative al posto dei defunti. Questo rappresentava un’assicurazione per i defunti, garantendo che avrebbero potuto svolgere i loro compiti senza interruzioni nella vita dopo la morte.
Tuttavia, è importante notare che in epoche ancora più remote, la pratica era molto diversa e molto più oscura. Secondo l’American Society for Overseas Research, i primi faraoni venivano seppelliti con sacrifici umani. Questo aspetto oscuro delle credenze e delle pratiche dell’antico Egitto mostra quanto siano cambiate nel corso dei millenni.
L’inquetante storia di Khonsemhab e il fantasma
Nel periodo ramesside (1186-1077 a.C.) del Nuovo Regno (1570-1069 a.C.), esiste una storia di fantasmi intitolata Khonsemhab e il fantasma. Sebbene la versione sopravvissuta della storia provenga dal Nuovo Regno, si ritiene che sia una copia di un racconto più antico del Medio Regno. Questo racconto dipinge una relazione insolita tra il Sommo Sacerdote di Amon, Khonsemhab, e uno spirito di nome Nebusemekh, il cui mausoleo era in rovina. La storia differisce dalla concezione tradizionale dei fantasmi come esseri spettrali che perseguitano i vivi, poiché Nebusemekh non rappresenta una minaccia, ma piuttosto un’anima scontenta.

La narrazione ha inizio quando Khonsemhab ritorna a casa dopo aver casualmente incontrato lo spirito nella necropoli di Tebe. Questo evento scatena l’interesse di Khonsemhab, che decide di evocare lo spirito per un dialogo diretto. In questo incontro, scopre il nome di Nebusemekh e l’origine del suo rancore: la sua tomba era caduta in rovina a causa del cedimento del terreno sottostante, e nessuno gli portava più offerte poiché non sapeva dove fosse sepolto. Khonsemhab si impegna a costruire una nuova tomba per il defunto, ma Nebusemekh è scettico, poiché ha sentito promesse simili in passato. In seguito, Khonsemhab manda dei servitori che localizzano la tomba e annuncia i suoi piani a un funzionario di costruire una nuova sepoltura per Nebusemekh. La fine della storia è purtroppo andata perduta, ma si presume che Khonsemhab abbia mantenuto la sua promessa, fornendo a Nebusemekh una nuova dimora eterna.
Anche se questa storia è chiaramente una creazione letteraria, rispecchia il modo in cui gli antichi egizi credevano fermamente nella possibilità di interagire con gli spiriti defunti. Anche se i personaggi di Khonsemhab e la storia di Nebusemekh sono inventati, il messaggio sottostante è di vitale importanza. La narrazione mira a sottolineare l’importanza di onorare e preservare le tombe dei defunti, sottolineando che chiunque, anche una figura rispettata come Nebusemekh – onorato persino da un grande sovrano come Mentuhotep II – meritava un costante riconoscimento e cura della sua tomba. Il pubblico riceve il monito che onorare i morti è essenziale, poiché alla fine, tutti affronteranno la stessa realtà.
La Vita Terrena e il Futuro nell’Aldilà
Nell’antico Egitto, l’aldilà, noto anche come il Campo dei Canneti, rappresentava una perfetta continuazione della vita terrena. Gli Egizi credevano che gli dei avessero creato il più sublime dei luoghi quando diedero vita all’Egitto, e come riconoscimento per la loro devozione e giudizio favorevole, concedevano loro il prezioso dono dell’eternità dopo la morte, ottenuta attraverso il giudizio di Osiride. Questa visione, come già accennato, ha subito alcune modifiche nel corso della storia, ma il concetto centrale di un’eternità in un regno di beatitudine ha perdurato attraverso i secoli nell’antica cultura egizia.
Nel Medio Regno, tuttavia, emergono testi che riflettono una visione notevolmente diversa rispetto alla fede in un’eternità di gioia nell’aldilà, ed è in questo contesto che Khonsemhab si rivolge allo spirito di Nebusemekh. Questi testi sembrano mettere in discussione la visione tradizionale dell’aldilà, suggerendo che potrebbero esserci sfumature e variabili nei destini dell’aldilà, oltre alla semplice immortalità. Sembra che l’idea dell’aldilà stesse evolvendo e che non tutti gli spiriti fossero garantiti un’eternità felice. La storia di Khonsemhab e Nebusemekh rappresenta un’esplorazione di questa concezione in evoluzione dell’aldilà e della relazione tra i vivi e i morti.
Mentre Khonsemhab promette di costruire una nuova tomba per Nebusemekh, sembra che il rispetto e l’attenzione alle tombe dei morti fossero visti come un modo per influenzare positivamente il destino degli spiriti nell’aldilà. Questa storia serviva come una lezione morale, sottolineando l’importanza di onorare e curare le tombe dei defunti come una via per garantire il loro benessere nell’aldilà, indipendentemente dalla loro posizione o statuto nella vita terrena.
Questo riflesso sottolinea un cambiamento significativo nella comprensione egizia dell’aldilà, suggerendo che non tutti i defunti godrebbero automaticamente di una vita eterna felice, ma piuttosto che il loro destino poteva essere influenzato dalle azioni dei vivi.
«Come te la passi male / senza mangiare o bere, senza invecchiare / o diventare giovane, senza vedere la luce del sole o inspirare le brezze del nord. L’oscurità è nel tuo sguardo ogni giorno. Non ti alzi presto per partire.»
William Kelly Simpson (1928-2017), tratto da The Literature of Ancient Egypt, 1972
L’idea dell’aldilà nell’antico Egitto ha subito variazioni nel corso dei secoli, e durante il Medio Regno (circa 2055-1650 a.C.), emergono alcune opinioni che riflettono una visione diversa rispetto all’eternità nella tradizione egizia. Mentre la morte era considerata inevitabile, ciò che accadesse dopo la morte diveniva meno certo. Questa visione differiva notevolmente dalla tradizionale prospettiva egizia, in cui gli individui credevano che l’aldilà rappresentasse una continuazione della loro vita terrena in un paradiso di eterna beatitudine.

In questo periodo, la visione dell’aldilà egizio sembrava avvicinarsi a quella della Mesopotamia, dove i morti erano immaginati in uno stato di eterno crepuscolo, privi di luce e consolazione, bevendo dalle pozzanghere e nutrendosi di polvere. La distinzione chiave era che, a differenza della tradizionale credenza egizia in cui lo spirito manteneva un legame con la vita terrena e le azioni dei vivi, ora si riteneva che gli spiriti perdessero qualsiasi collegamento con il mondo precedente. L’affermazione di Khonsemhab, «Non ti alzi presto per partire», sembra fare riferimento alla pratica terrena di alzarsi al mattino per andare a lavorare. In questo nuovo scenario, l’aldilà non avrebbe più richiesto l’attività lavorativa dei defunti rispetto a quanto era comunemente accettato nella visione tradizionale. Le tombe, una volta considerate la “casa eterna” in Egitto, ora sembravano essere la destinazione finale.
Questa nuova prospettiva portava con sé un certo scetticismo circa la natura dell’aldilà, e i fantasmi nell’antico Egitto divenivano percepiti come una minaccia più immediata per l’ordine sociale. Ci si chiedeva dove fossero finite le anime delle persone alla morte. La risposta sembrava essere che non avevano luogo specifico in cui trascorrere l’eternità. Rimanevano, in qualche modo, nelle loro tombe, incarnando una presenza in questa vita più che nell’aldilà. I fantasmi non provenivano più dall’aldilà per interagire con i vivi, ma si manifestavano in questa esistenza.
Allo stesso tempo, è interessante notare un crescente senso di pietà personale. Le iscrizioni tombali durante il Medio Regno iniziano a mostrare un aumento delle espressioni individuali di devozione verso gli dei e il senso del dovere nei confronti degli altri. Questa crescente pietà personale potrebbe riflettere il desiderio di influire positivamente sul proprio destino nell’aldilà, anche in un’epoca in cui la visione tradizionale dell’eterna beatitudine sembrava meno sicura.
«C’era anche una notevole enfasi sulla “pietà personale” (cioè l’accesso diretto e personale alle divinità piuttosto che attraverso il re o i sacerdoti, un concetto religioso che aumentò ulteriormente di popolarità durante il Nuovo Regno). Le stele del Medio Regno sottolineano la pietà dei loro proprietari deceduti, e da questo si sviluppò il concetto di “confessione negativa” (elenchi rituali di reati che il defunto dichiarava di non aver commesso). Le stele stesse divennero, soprattutto quelle decorate con occhi di wedjat, il principale simbolo di protezione, ma anche altre insegne (l’anello di shen e il disco del sole, per esempio)
Ian Shaw, egittologo (da The Oxford History of Ancient Egypt, 2004)
appartenenti allo stesso periodo.»

In un’epoca in cui la certezza di una vita ultraterrena era meno marcata, le dichiarazioni di pietà scolpite sulle tombe divennero un modo essenziale per garantire il ricordo continuo e la cura delle anime dei defunti. Le persone mettevano particolare enfasi sulla costruzione e sulla manutenzione delle tombe, poiché queste rappresentavano la dimora eterna per gli spiriti dei loro cari. La tomba divenne un luogo di importanza crescente, un punto focale per onorare i morti e garantire che non venissero dimenticati.
In questo periodo di incertezza sull’aldilà, emerse una nuova prospettiva sulle relazioni tra gli esseri umani e gli dèi. Come nota Gae Callender, le persone iniziarono a sviluppare il concetto di una relazione personale con le divinità, confidando che gli dèi avrebbero continuato a prendersi cura dei loro spiriti pii nelle tombe nel caso in cui l’aldilà si rivelasse meno affidabile di quanto sperato. Questa concezione suggeriva che gli spiriti dei morti fossero più vicini di quanto si fosse creduto in precedenza. Le persone potevano instaurare una relazione personale con i fantasmi in un modo simile a come interagivano con gli dèi stessi.
Un esempio che illustra questa nuova prospettiva è l’opera didattica nota come L’insegnamento di Amenemete I al figlio Sesostri I, risalente all’inizio del Medio Regno. Questo testo presenta il re defunto Amenemhat I (circa 1991-1962 a.C.) che rivolge consigli a suo figlio Senusret I (circa 1971-1926 a.C.). Sebbene un tempo si credesse che fosse una vera lettera scritta dal re al principe, ora è interpretato come un lavoro di letteratura scritto in onore di Amenemhat I dopo il suo assassinio.

Questo testo suggerisce una convinzione diffusa in quel periodo secondo cui i morti potevano comunicare direttamente con i vivi senza la necessità di intermediari. In queste lettere, i fantasmi erano gli autori e i vivi i destinatari. Questi spiriti defunti erano presenti e osservavano il mondo dei vivi, pronti ad offrire assistenza o a richiederla. Erano rappresentati come vicini, sebbene invisibili.
Anche nelle epoche in cui il Campo di Canne sembrava meno certo, i fantasmi rimanevano una parte integrante della spiritualità egizia. La prospettiva di un’eternità nell’aldilà, anche se all’interno di una tomba, era preferibile all’idea di non esistenza. La continua esistenza dell’anima dopo la morte era cruciale, indipendentemente dall’atteggiamento riguardo all’accumulo di beni terreni. I morti erano considerati presenti come i vivi e meritavano lo stesso rispetto. E quando questo rispetto non veniva accordato, i fantasmi potevano far sentire la loro presenza in modo inequivocabile.
Uno sforzo necessario per risolvere il problema dei fantasmi
Un antico egizio, quando sospettava che un problema fosse causato da uno spirito, intraprendeva un’azione per risolverlo. La soluzione coinvolgeva spesso la consulenza di figure religiose o sagge locali, incaricate di affrontare gli spiriti indesiderati. Nonostante il contesto religioso fosse diverso da quello del cattolicesimo, gli antichi egizi avrebbero cercato l’aiuto di preti politeisti o persone con una comprensione delle questioni spirituali.
Come molti personaggi nei film horror successivi, coloro che affrontavano fantasmi avrebbero probabilmente compiuto atti visibili e rumorosi per allontanare gli spiriti maligni. Questi rituali potevano comprendere urla, percussioni energetiche con tamburi o altri strumenti e altre azioni rumorose e spettacolari. Anche se non è specificato se questi sacerdoti fossero retribuiti per i loro servizi, è ragionevole presumere che lo fossero. I sacerdoti erano spesso considerati dipendenti delle famiglie a cui prestavano servizio, come i sacerdoti ka, responsabili di conservare le offerte nelle tombe di una famiglia.
L’intervento dei sacerdoti poteva iniziare sin dall’inizio del problema spirituale, poiché gli imbalsamatori erano anch’essi sacerdoti e potevano prevenire il risorgere dei fantasmi. Un sacerdote imbalsamatore, esperto e ben remunerato, avrebbe cercato di mantenere i fantasmi felici fin dall’inizio, aiutando a evitare problemi futuri.
Il lungo e pericoloso viaggio dei fantasmi per l’Aldilà
Nell’antico Egitto, la credenza dominante era che gli spiriti dei defunti affrontassero una serie di compiti e sfide subito dopo la morte. Non c’era un semplice teletrasporto magico verso l’aldilà; al contrario, il passaggio richiedeva la conoscenza di vari incantesimi e frasi per attraversare in sicurezza una serie di cancelli. Coloro che avevano la fortuna di appartenere a famiglie benestanti venivano sepolti con il cosiddetto Libro dei Morti, contenente questi incantesimi e le relative parole chiave.
Il percorso verso l’aldilà era intricato, e si sperava che lo spirito del defunto avesse compreso adeguatamente tutti questi dettagli. Un momento critico di questo viaggio avveniva davanti agli dei, dove il dio Anubi aveva il compito di pesare il cuore del defunto rispetto a un concetto di verità o giustizia, spesso rappresentato da una piuma. Se il cuore fosse risultato più pesante, veniva gettato a una divinità terrificante con la testa di coccodrillo e il destino del defunto sarebbe stato segnato dall’oscurità.
Tuttavia, se lo spirito superava con successo questa inquietante sfida, aveva due opzioni: poteva unirsi al dio del sole Ra nel suo viaggio a bordo della barca del sole, o trovare il suo posto nel Campo dei Canneti. Questo paradiso era, in sostanza, un’ideale continuazione della vita in Egitto, ma con benedizioni ancora più grandi. I raccolti erano incredibilmente abbondanti, tutto era meraviglioso e nessun desiderio rimaneva insoddisfatto. Era il premio finale per coloro che avevano superato le prove dell’aldilà.
Il conflitto tra demoni e fantasmi nell’antico Egitto
Potrebbe esserci una ragione completamente diversa per cui alcuni antichi fantasmi egizi ritornavano, che non riguardava direttamente problemi legati alle loro tombe o ai membri problematici della famiglia. Alcuni studiosi ritengono che ciò potesse essere dovuto al fatto che l’aldilà egizio era abitato non solo dagli dèi e dagli spiriti umani, ma anche da una vasta gamma di esseri minori. Questi esseri minori, spesso chiamati demoni nella terminologia moderna, erano una parte significativa della credenza egizia e potevano influenzare la vita quotidiana delle persone. Questa presenza era evidenziata dal gran numero di piccole statuette e santuari domestici eretti in loro onore.

Tuttavia, è importante notare che il termine “demoni” non implica necessariamente una cosmologia monoteistica basata sul bene e sul male, come potrebbe essere interpretato nelle culture successive. Questi spiriti egizi erano considerati parte della realtà spirituale e, in quanto tali, avevano una vasta gamma di caratteristiche e ruoli. Erano complessi e assumevano molte forme diverse, ognuna con uno scopo specifico.
In effetti, ciò che potrebbe sorprendere le persone oggi è la loro vicinanza a questi esseri spirituali, poiché i fantasmi nell’antico Egitto potrebbero essere considerati una parte di questa categoria di esseri semi-divini. Come suggerisce l’archeologia, questi spiriti potevano causare caos o, al contrario, aiutare i vivi, a seconda delle circostanze e delle esigenze della giustizia cosmica. Inoltre, si credeva che un individuo comune, dopo la morte, potesse diventare uno di questi spiriti, acquisendo potere e ricevendo tributi dai suoi discendenti, il che aggiungeva un’ulteriore dimensione alla complessa interazione tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti degli egizi.
Conclusioni
Quello che emerge dal rapporto degli antichi egizi con i fantasmi è qualcosa che va ben oltre la semplice paura del soprannaturale: è una vera e propria filosofia del legame eterno tra vivi e morti. Per loro, la morte non era una fine, ma un passaggio. Un cambio di “residenza”, diciamo così. E non stupisce quindi che i defunti continuassero a far parte della comunità, presenti nelle case, nelle tombe curate con dedizione, nelle offerte di cibo e perfino nelle lettere scritte per chiedere aiuto o scusarsi.
Quello che mi colpisce è proprio quanto fosse normale per gli egizi l’idea di parlare coi morti. I fantasmi non erano “strani fenomeni”, ma parenti con cui si manteneva un dialogo. E quando si arrabbiavano – perché sì, anche nell’aldilà pare ci fossero risentimenti – potevano anche farsi sentire. Non con catene e urla notturne, ma con malattie, disgrazie o sogni inquieti. Per questo era importante trattarli bene, quasi negoziare con loro. E anche oggi, a pensarci bene, non siamo poi così diversi: chi non ha mai lasciato un fiore sulla tomba di un caro, o parlato a qualcuno che non c’è più?
Un’altra cosa interessante è come la distinzione tra spiriti e fantasmi fosse molto chiara: i primi erano entità divine, intermediarie, spesso legate alla giustizia cosmica; i secondi erano proprio le persone care defunte, tornate per dire la loro. Un concetto che secondo me ci fa capire quanto fosse profonda la loro visione della coscienza: per gli egizi, l’identità non svaniva con la morte. Rimaneva memoria, volontà, personalità.
Certo, col passare dei secoli le cose cambiarono. Alcuni cominciarono a dubitare dell’aldilà come paradiso assoluto. I fantasmi, da figure familiari, iniziarono a diventare più ambigui, più inquieti. E in mezzo a loro si affacciavano altri spiriti, più piccoli, più oscuri, spesso considerati responsabili delle forze della giustizia o del caos.
Quello che ci lascia l’antico Egitto, alla fine, è una lezione potente: non esiste un confine netto tra il mondo dei vivi e quello dei morti. È una linea sottile, sfumata, che si nutre di riti, ricordi e relazioni. I fantasmi non erano solo paure da esorcizzare, ma presenze da comprendere, con cui dialogare. E forse anche noi, in fondo, abbiamo ancora molto da imparare da questo modo di vedere l’invisibile.