Clara Germana Cele © Archeus
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L’esorcismo di Clara Germana Cele

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Il contesto storico e religioso

Perdonatemi se continuo a nominarla Clara e non Klara (nome ufficiale), ma purtroppo me lo “impone” il SEO (Search Engine Optimization), per una migliore scansione e indicizzazione del sito web nel motore di ricerca. Spesso la nominerò come Germana, perché questo è il nome come veniva comunemente chiamata nella stazione missionaria di St. Michael in Sudafrica.

Il racconto si svolge in un villaggio Zulu del Sudafrica nel 1906. Nel 1486, Bartolomeo Diaz (in portoghese Bartolomeu Dias, 1450-1500), seguito da Vasco da Gama (c. 1469-1524), conte di Vidigueira e viceré delle Indie Orientali, fu il primo europeo a raggiungere il Sudafrica, superando il Capo di Buona Speranza. Nel 1652, i coloni olandesi, noti come boeri, fondarono la Città del Capo come stazione di rifornimento. Successivi scontri con gli Xhosa portarono alle Guerre di Frontiera del Capo. L’occupazione britannica nel 1797 portò a tensioni, e i boeri si spostarono nell’interno fondando repubbliche boere.

La scoperta di diamanti e oro intensificò gli interessi britannici, provocando due guerre boere nel 1880-1881 e nel 1899-1902. Nonostante la strenua resistenza dei boeri, gli inglesi prevalsero, usando tattiche criticabili come campi di concentramento e terra bruciata. Con il Trattato di Vereeniging nel 1902, il Regno Unito ottenne il controllo formale del Sudafrica, e la gestione britannica cercò di anglicizzare i boeri con l’inglese nelle scuole, ma tale sforzo fu abbandonato nel 1906, riconoscendo l’afrikaans come lingua separata dal neerlandese.

L’arrivo della Chiesa cattolica in Sudafrica risale agli inizi del XVI secolo, con la costruzione della prima chiesa nel 1501 a Mossel Bay. L’evangelizzazione del paese è seguita dai protestanti, che inizialmente ostacolano l’accesso dei missionari cattolici. Nel 1804, con l’ottenimento della libertà religiosa, giungono i primi missionari cattolici olandesi. Nel 1850, vengono istituiti i vicariati apostolici del Natal, affidato agli Oblati di Maria Immacolata, e di Durban.

Nei primi del Novecento la Chiesa cattolica era impegnata in una campagna di “esorcizzazione coloniale”, in quanto proprio nei pressi di Umzinto, vicino a Durban in Sudafrica, vi era un fenomeno chiamato localmente Amafufunyana, in cui membri del popolo Xhosa manifestavano comportamenti devianti e preoccupazioni psicologiche, attribuendoli a una presunta possessione demoniaca.

Uno studio successivo ha rivelato che il termine è utilizzato per descrivere persone con vari tipi di schizofrenia. In modo simile, il concetto di ukuthwasa è impiegato per indicare forme positive di possessione dichiarata, coinvolgendo anche coloro che soffrono di schizofrenia. Questo concetto ha anche trovato risonanza culturale tra alcuni gruppi della popolazione Zulu, di cui Clara Germana Cele faceva parte.

Il fenomeno paranormale Amafufunyana

Amafufunyana rappresenta una sindrome “legata alla cultura” senza specificazioni, coniata dai guaritori tradizionali del popolo Xhosa. Essa si riferisce alle affermazioni di possessione demoniaca manifestate da membri della comunità Xhosa che presentano comportamenti aberranti e preoccupazioni psicologiche. Un’indagine successiva ha rivelato che questo termine viene comunemente associato a individui affetti da vari tipi di schizofrenia.

Il popolo Xhosa è un gruppo etnico bantu originario dell’Africa centrale, che nel corso dei secoli ha migrato verso sud, compresa la zona KwaZulu-Natal. La loro migrazione ha causato lo spostamento delle popolazioni indigene Khoikhoi e Boscimani/San. La principale area di insediamento è stata nelle province del Capo in Sud Africa.

La comunità Xhosa ha radici profonde nella loro terra d’origine in Africa centrale, ma il loro insediamento più ampio nell’Africa meridionale ha avuto impatti significativi sugli equilibri demografici e sociali della regione. La loro lingua, IsiXhosa, è un elemento distintivo della loro identità culturale e costituisce un importante mezzo di comunicazione all’interno della comunità.

Gli Zulu, invece, sono un gruppo etnico africano che ebbe fortuna politica e militare agli inizi del XIX secolo, appartenente al popolo Ngoni insieme agli Swazi e agli Ndebele dello Zimbabwe. Le loro tradizioni si sono mescolate con quelle degli Xhosa.

Il concetto correlato di ukuthwasa è utilizzato per descrivere esperienze di possessione dichiarata, spesso coinvolgendo individui che soffrono di schizofrenia. Questo termine ha anche trovato risonanza culturale proprio tra alcuni gruppi della popolazione Zulu.

Ragazza Zulu. Immagine generata da AI © Archaeus
Ragazza Zulu. Immagine generata da AI © Archaeus

La traduzione letterale di Amafufunyana è nervi, ma va oltre, facendo parte di un sistema di credenze culturale complesso che collega diversi tipi di psicosi con pratiche religiose, sociali e, più recentemente, psichiatriche. Ho letto un articolo che risale al 1998 (Xhosa-Speaking Schizophrenic Patients’ Experience of Their Condition: Psychosis and Amafufunyana) in cui i ricercatori Crick Lund e Leslie Swartz fanno emergere che, attraverso l’interazione con scienziati e servizi psicologici, il trattamento preferito per tale condizione culturale aveva progressivamente abbandonato il coinvolgimento dei guaritori tradizionali in favore di una valutazione psichiatrica attiva.

Gli individui che dichiaravano di sperimentare l’Amafufunyana descrivevano sintomi come udire “voci provenienti dal loro stomaco”, parlare in un’altra lingua o con un tono inquietante, agitazione generale e potenziale manifestazione di violenza. Vi era stati anche tentativi di suicidio. Era questo che si temeva per Clara Germana Cele ed era il motivo per cui fu protetta all’interno della stazione missionaria.

Una delle spiegazioni culturali per l’insorgere di questa condizione è l’incantesimo attribuito al consumo di una “pozione magica” prodotta da formiche che si sono nutrite di un cadavere sepolto. Inoltre, si ritiene che la causa possa essere legata a una presunta possessione da parte di spiriti maligni. Nell’ambito degli Zulu, in particolare, c’era (ma in alcune zone vi è ancora) la credenza che un “branco di spiriti” provenienti da diverse comunità etniche possa unirsi per prendere possesso del corpo di un individuo.

Per quanto riguarda il trattamento culturale di questa condizione dichiarata, spesso uno dei guaritori tradizionali, frequentemente coloro che praticano l’ukuthwasa, conduce un rituale di esorcismo. Ma nel periodo dell’evangelizzazione cattolica, erano i preti esorcisti a praticare il rituale di liberazione.

Un fotogramma del film L'Esorcista (The Exorcist) - fonte: Warner Bros. Pictures
Un fotogramma del film L’Esorcista (The Exorcist) – fonte: Warner Bros. Pictures

Non è un caso che nel film L’Esorcista (The Exorcist) del 1973 si presuppone che il suo personaggio omonimo abbia combattuto per la prima volta un demone in Africa. Il resto dei film della serie poi, riecheggiando un forte cliché dell’horror americano, collocano in Africa il luogo del male. Accostando queste narrazioni agli scritti dello psichiatra e antropologo francese Frantz Fanon (1925-1961) sulla possessione nel libro I dannati della terra (Les Damnés de la terre) del 1961 (edito in Italia da Einaudi nel 2000), si può vedere come la violenza coloniale e la credenza indigena sulla possessione riflettano una cultura in tensione sulla violenza inflitta ai corpi e sul potere liberatorio dell’esorcismo.

I casi documentati di Amafufunyana sembrano aver avuto origine agli inizi del XX secolo, e studiosi come Baldwin Sipho “Ben” Ngubane (1941-2021) e altri hanno avanzato l’ipotesi che la sua formazione culturale possa essere collegata al colonialismo e alla migrazione forzata delle popolazioni indigene lontano dalle loro terre d’origine. Sono stati osservati episodi diffusi della sindrome, simili a eventi di isteria contagiosa, anche negli anni Ottanta in un collegio femminile rurale. Quindi non è difficile immaginare che potesse accadere anche alla stazione missionaria di St. Michel nei primi del Novecento.

Le persone più comunemente identificate come colpite da Amafufunyana appartengono a fasce economiche e sociali più basse, e spesso si verificano durante periodi di turbamento e cambiamento culturale, come le fasi di migrazione. Inoltre, si nota una maggiore frequenza di casi tra le donne rispetto agli uomini. Non è un caso che nella storia della possessione di Clara Germana Cele vengano citate altre due ragazze nello stesso stato psico-fisico di quest’ultima.

I missionari europei importarono le loro idee sull’esorcismo in altri continenti nel XX secolo, tuttavia, l’influenza non fu affatto unidirezionale, e gli esorcisti lottarono per conciliare le aspettative culturali locali.

La colonizzazione dell’Africa e l’evangelizzazione

John Maxwell Coetzee
John Maxwell Coetzee

«L’Africa non rappresentava un nuovo mondo». Così descrisse l’Africa nel 1988 lo scrittore e saggista sudafricano naturalizzato australiano, John Maxwell Coetzee, Premio Nobel per la letteratura nel 2003. E lo scrisse sulla prospettiva dei colonizzatori europei sul paesaggio sudafricano attribuendo il rifiuto di una evangelizzazione all’essere vuoto e descrivibile, sottraendosi così alla fantasia dei colonizzatori di un “nuovo Eden”. Invece, per i colonizzatori, il paesaggio costantemente trasmetteva storia e anteriorità, suscitando una percezione di temporaneità.

Tuttavia, verso la fine del XIX secolo, i libri di storia nei territori coloniali sudafricani delineavano una visione diversa della terra: la sua storia iniziava nel 1652 con l’arrivo dell’esploratore Jan van Riebeeck (1619-1677), il comandante olandese del presidio di approvvigionamento stabilito a Città del Capo.

Jan van Riebeeck dipinto da Jacob Coeman nel 1660
Jan van Riebeeck

Quest’idea affermava in modo deciso il diritto dei colonizzatori di appartenere, al punto che nulla esisteva prima. Come è stato possibile? Oltre alla potenza brutale di guerra, spostamento e genocidio, è stato anche realizzato attraverso un meccanismo discorsivo che ha etichettato i dettagli del paesaggio e delle persone precedenti l’insediamento europeo come insignificante “altro”. Questo progetto adamitico di denominazione è narrato nelle nove pagine del Dictionary of South African English on Historical Principles del 1996, che delinea i significati e l’uso della parola più notoria nella storia sudafricana, nota soprattutto per la sua associazione con la violenza contro i neri durante l’apartheid, ma originariamente utilizzata ed elaborata durante il periodo coloniale. Tale parola è proprio kaffir (o kafiro).

La stazione missionaria di St. Michael

Una veduta di KwaZulu-Natal, in Sudafrica
Una veduta di KwaZulu-Natal, in Sudafrica

Prima dell’arrivo di padre Erasmus Hörner, la stazione missionaria di St. Michael (San Michele) aveva già consolidato una notevole reputazione. Fondata nel 1855, la stazione missionaria era posizionata strategicamente tra Umzinto e Ixopo (Stuartstown), Natal. Strategicamente perché la Chiesa cattolica stava evangelizzando gli indigeni. Rappresentava la più antica missione cattolica per i nativi in Natal e forse in tutta la regione del Sudafrica. Inizialmente collocata più all’interno del territorio, la missione subì un attacco e la distruzione degli edifici da parte delle tribù locali appena otto mesi dopo la loro costruzione.

Successivamente, un secondo sito, meno ambizioso, fu individuato su una riserva zulu a breve distanza da Umzinto, dove venne eretta una cappella. Tuttavia, anche questa fu abbandonata entro un anno. Nel 1860, si fece un ulteriore tentativo nel sito originale, ma anch’esso fu abbandonato entro il 1861. Come annotato dal primo vescovo della diocesi di Natal, vescovo Jean-François Allard (1806-1889), «i kafiri hanno respinto il seme divino»4.

Dopo un periodo di tempo, St. Michael rimase deserta, nonostante gli sforzi del successore del vescovo Allard, ovvero il vescovo Charles Jolivet (1826-1903), nel cercare di ravvivare la missione nel 1882 quando un gruppo di monaci trappisti (religiosi di clausura dediti alla preghiera) espresse l’interesse di reinsediarsi nel Natal. Questi monaci, inizialmente reclutati dalla Bosnia dal vescovo James David Ricards (1828-1893) del vicariato del Capo Orientale, avevano avuto dissidi con lui, e il vescovo Jolivet li assegnò a St. Michael. Tuttavia, il loro capo, padre Franz Pfanner (1825-1909), missionario austriaco dell’Ordine dei Cistercensi della Stretta Osservanza, rifiutò categoricamente di trasferirsi lì, basando la sua decisione esclusivamente su rapporti sfavorevoli riguardanti il clima e la geografia della missione5. Invece, decise di fondare il Monastero di Mariannhill, nel sobborgo della città di Pinetown, nel KwaZulu-Natal, a pochi chilometri da Durban, che in soli tre anni fu elevato al rango di prima abbazia in Sudafrica. Entro il 1887, il successo di Mariannhill era tale che era diventato «numericamente la più grande abbazia del mondo».

L’approccio missionario adottato da Mariannhill sembrava ottenere successo. Entro il 1895, dopo cinque anni di gestione trappista, la proprietà contava sessanta individui convertiti al cristianesimo, mentre ventisei ragazzi e settantatré ragazze frequentavano regolarmente la scuola appositamente creata. Nel frattempo, era in corso la costruzione di una chiesa. Nel fondo rustico vivevano otto monaci e nove suore, che operavano con zelo e determinazione.

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