L’Esperienza Extracorporea (OBE, o OOBE, dall’inglese Out-of-Body Experience) si verifica quando una persona percepisce di essersi separata dal proprio corpo fisico, con la sensazione di potersi spostare in altri luoghi o dimensioni. Questo fenomeno è stato riportato da circa un adulto su quattro, ma nonostante la sua diffusione, le prove scientifiche sono ancora inconcludenti, portando molti scettici a considerarlo come uno stato alterato di coscienza.
Conosciute anche come viaggi o proiezioni astrali, le OBE sono state descritte e documentate fin dai tempi antichi, con riferimenti che spaziano dagli antichi Egizi, che parlavano del Ka (il doppio spirituale di una persona, rappresentante la forza vitale che continuava a esistere dopo la morte), a Platone (ca 428-347 a.C.), che credeva che l’anima potesse separarsi dal corpo. Anche il Libro tibetano dei morti (Bardo Thödol) e le tradizioni cinesi e sciamaniche trattano di questo fenomeno. Il Libro tibetano dei morti parla di un “corpo del Bardo”, una sorta di doppio eterico del corpo fisico. Anche gli sciamani tribali affermano di poter proiettare la propria coscienza fuori dal corpo, e vi è una diffusa credenza nei doppelgänger, copie spettrali o duplicati del sé. Sia Socrate (469-399 a.C.) che Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) hanno riportato numerose descrizioni di esperienze simili a quelle extracorporee. Nella tradizione cinese antica, si credeva che l’OBE potesse essere ottenuta tramite la meditazione.



Le OBE sono spesso associate anche alle Esperienze di Pre-Morte (NDE), dove la sensazione di uscire dal corpo e osservare se stessi dall’esterno è un elemento comune. Tuttavia, le OBE possono manifestarsi anche in momenti di sonno, meditazione, malattia o trauma, e le descrizioni variano da semplici osservazioni del proprio corpo a viaggi in luoghi distanti o in dimensioni alternative.
Esistono due principali approcci interpretativi riguardo le OBE: una visione che sostiene che qualcosa (anima, mente o coscienza) possa realmente lasciare il corpo, e una prospettiva che le considera un’illusione o allucinazione, spiegabile attraverso la psicologia e le neuroscienze.
Le OBE nella storia
La ricerca sulle esperienze extracorporee (OBE) e la loro documentazione nelle culture antiche è affascinante e offre uno sguardo sulle credenze spirituali e religiose di diverse civiltà. Nel mondo antico, infatti, molte religioni insegnavano che uomini e donne erano essenzialmente esseri spirituali (anime) incarnati per compiere un fine divino, perdendo il corpo alla morte ma continuando a esistere nell’aldilà o in una nuova incarnazione.
Ecco un approfondimento su ciascuna delle culture menzionate, evidenziando le loro visioni delle OBE.
Antico Egitto

Gli antichi Egizi avevano una concezione complessa e dettagliata dell’essere umano, basata su una forte dualità tra corpo e anima, espressa principalmente attraverso i concetti di Ka e Ba. Il Ka rappresentava la forza vitale o l’energia essenziale di una persona, la parte immortale che la legava agli dei e che persisteva dopo la morte. Il Ba, invece, era l’aspetto più individuale e unico dell’anima, rappresentando la personalità, le emozioni e l’identità. Questi due elementi dovevano lavorare insieme per garantire una vita eterna nell’aldilà.
La credenza nella possibilità di viaggi extracorporei era profondamente radicata nella cultura egizia, specialmente nel contesto delle pratiche funerarie. Durante il processo di imbalsamazione, si riteneva che l’anima potesse temporaneamente lasciare il corpo, viaggiando nel regno dei morti. Questi rituali non erano semplicemente un modo per preservare il corpo, ma avevano una funzione spirituale: aiutare l’anima a navigare nel complesso mondo dell’oltretomba e a prepararsi per il giudizio finale.
La famosa “pesatura del cuore”, davanti al dio Osiride e alla dea Maat, simbolo della giustizia e della verità, era un momento cruciale in questo viaggio. L’anima del defunto veniva messa alla prova: il cuore, simbolo delle azioni e dei pensieri di una persona, veniva pesato su una bilancia contro la piuma della verità. Se il cuore risultava leggero, l’anima era ritenuta pura e poteva accedere al campo di Iaru, una sorta di paradiso egizio, dove avrebbe vissuto in eterno. Se invece il cuore era troppo pesante, veniva divorato dalla temibile Ammit, la “Divoratrice dei Morti”, condannando l’anima a un destino di oblìo.

A guidare l’anima in questo viaggio erano testi sacri come il Libro dei Morti, una raccolta di formule, preghiere e incantesimi che fornivano istruzioni su come superare gli ostacoli dell’aldilà. Questi testi divennero particolarmente importanti durante il Regno Medio (circa 2055-1650 a.C.), un periodo in cui le pratiche funerarie si evolsero, diventando più elaborate e accessibili a un maggior numero di persone, non solo ai faraoni e ai nobili. Grazie a queste istruzioni, il defunto poteva navigare nel regno di Osiride, affrontando pericoli, demoni e prove, fino a raggiungere la vita eterna.
Il Libro dei Morti non era l’unico testo sacro a svolgere questo ruolo. Anche i Testi delle Piramidi, usati principalmente per i sovrani, e i Testi dei Sarcofagi, destinati a una più ampia fascia della popolazione, riflettevano l’importanza di fornire ai morti gli strumenti spirituali necessari per il loro viaggio nell’aldilà. L’intero sistema religioso egizio era quindi permeato dalla convinzione che l’anima fosse capace di viaggiare, di essere giudicata e, attraverso le giuste pratiche, di raggiungere l’immortalità.
Leggi anche:
Oltre la Morte: i Fantasmi nell’Antico Egitto
Greci e Romani
Nella mitologia greca, le esperienze extracorporee (OBE, Out-of-Body Experiences) venivano spesso interpretate come viaggi dell’anima, in cui questa si distaccava temporaneamente dal corpo. Platone, nei suoi dialoghi (dialogi), come il Fedone, esplorava l’immortalità dell’anima, descrivendola come capace di separarsi dal corpo fisico e di viaggiare non solo dopo la morte, ma anche in vita, attraverso esperienze spirituali o filosofiche. Nel Fedone, Platone espone l’idea che l’anima esista in un mondo ideale, distinto dal mondo materiale, e che possa raggiungere una conoscenza più pura durante questi viaggi.

Anche Aristotele (ca 384-322 a.C.), sebbene più materialista rispetto al suo maestro, affrontò il tema dell’anima, ma in modo diverso. Per Aristotele, l’anima era strettamente legata al corpo e ne rappresentava la forma vitale. Tuttavia, la sua concezione più razionale e funzionale dell’anima contribuì comunque al dibattito sulla sua possibile separazione dal corpo e sulla vita dopo la morte, ampliando la riflessione sull’esistenza di una realtà spirituale.
I Romani, profondamente influenzati dalla cultura greca, ereditarono molte di queste concezioni. Anche per loro l’anima era vista come un’entità separata dal corpo fisico, capace di sopravvivere alla morte. I rituali funerari romani, come la celebrazione dei Lemuria e dei Parentalia, erano finalizzati a onorare gli spiriti dei defunti e a favorire il viaggio dell’anima verso il regno degli dei. In questi riti, si credeva che l’anima, liberata dal corpo attraverso la morte, potesse finalmente raggiungere l’aldilà, un luogo governato dalle divinità e separato dalla realtà terrena.
Sciamanesimo
In molte tradizioni sciamaniche, le esperienze extracorporee erano parte integrante della vita spirituale e della medicina tribale. Gli sciamani, figure chiave in queste culture, erano considerati mediatori tra il mondo visibile e quello invisibile, e il loro ruolo era quello di proteggere e guarire la comunità attraverso viaggi spirituali. Questi viaggi, conosciuti anche come viaggi astrali, erano vissuti come esperienze di separazione dell’anima dal corpo, in cui lo sciamano entrava in altre dimensioni per ottenere conoscenza, risolvere problemi o curare malattie.
Per raggiungere questi stati di coscienza alterati, lo sciamano utilizzava tecniche come il suono ritmico dei tamburi, i canti sacri e le danze rituali, elementi fondamentali per indurre il cosiddetto “stato sciamanico di coscienza”. Questo stato gli permetteva di entrare in contatto con spiriti ancestrali, animali guida, o con le forze della natura, da cui traeva insegnamenti e poteri necessari per portare guarigione o risposte ai problemi del suo popolo. In alcuni casi, lo sciamano poteva anche viaggiare nei regni degli inferi per recuperare le anime smarrite o affrontare entità maligne, riportando equilibrio e armonia nella vita della comunità.

Le pratiche sciamaniche, pur variando in dettaglio da una cultura all’altra, mostrano notevoli somiglianze nel modo in cui gli sciamani operavano. Tra i popoli indigeni delle Americhe, per esempio, lo Sciamanesimo era largamente praticato dai nativi nordamericani e sudamericani, come i Lakota e gli Inca. In queste culture, lo sciamano utilizzava visioni e viaggi spirituali per stabilire un legame con il mondo degli spiriti, chiedendo protezione per la tribù o guarigione per i malati.
In Asia, lo Sciamanesimo era diffuso tra le popolazioni siberiane e mongole. In Siberia, in particolare, gli sciamani si consideravano “camminatori tra i mondi”, capaci di viaggiare tra il regno umano e quello spirituale. Questi viaggi servivano a recuperare l’anima di una persona malata, risolvere conflitti o predire eventi futuri. Il legame tra lo sciamano e gli spiriti animali era una caratteristica centrale di molte di queste tradizioni, e la guarigione spirituale spesso avveniva attraverso l’intervento di uno spirito animale che lo sciamano evocava.
Anche in Africa, lo Sciamanesimo giocava un ruolo cruciale nella vita delle tribù. Gli sciamani bantu, ad esempio, praticavano il contatto con gli spiriti degli antenati per guarire i malati e offrire consigli spirituali. Le danze e i canti accompagnavano questi riti, che avevano l’obiettivo di riportare equilibrio tra il mondo materiale e quello spirituale.
La diffusione dello Sciamanesimo tra culture distanti tra loro dimostra l’universalità delle OBE nelle tradizioni spirituali del mondo. Queste pratiche erano considerate essenziali per il benessere fisico e spirituale della comunità, e lo sciamano, attraverso il suo ruolo di mediatore e guaritore, incarnava il ponte tra la realtà tangibile e i regni invisibili.
India Antica

Nella tradizione induista, le OBE sono descritte nei Veda e nelle Upanishad. Gli antichi indù credevano nel viaggio fuori dal corpo, un fenomeno descritto in testi come lo Yoga Vashishta-Maharamayana di Vālmīki (ca II-I secolo a.C.), un poeta indiano autore dell’epica induista Rāmāyaṇa. Gli insegnamenti induisti identificano tre corpi: fisico, sottile e causale. Il corpo causale definisce le caratteristiche della futura reincarnazione in base ai desideri e alle paure della vita presente, mentre il corpo sottile ha la capacità di separarsi dal corpo fisico, esplorando il mondo fisico prima di rientrarvi.
I testi antichi esplorano la natura dell’anima (Atman) e la sua relazione con l’assoluto (Brahman). Le OBE sono considerate esperienze significative nel percorso verso l’illuminazione e l’unione con il divino. Il concetto di moksha (liberazione) implica anche la trascendenza del corpo fisico e l’esperienza dell’unità con l’universo.
Le OBE sono un tema ricorrente nelle tradizioni spirituali e religiose delle culture antiche. Esse riflettono una profonda curiosità umana riguardo alla vita dopo la morte, alla natura dell’anima e alle connessioni spirituali. Sebbene le modalità e le interpretazioni varino da cultura a cultura, il filo comune è la ricerca di significato e comprensione oltre la realtà fisica. La documentazione di queste esperienze offre uno sguardo prezioso sulle credenze e le pratiche spirituali che hanno plasmato le civiltà nel corso della storia.
Il ricercatore psichico britannico John Arthur Hill (1884-1965) è stato il primo a coniare l’espressione esperienza extracorporea nel suo libro del 1918, Man is a Spirit. In seguito, il termine è stato ufficialmente introdotto dal matematico e parapsicologo George NM Tyrrell (1879-1952) nel suo lavoro Apparitions, pubblicato nel 1943. Tra i pionieri che si sono occupati di questo tema figurano il parapsicologo italiano Ernesto Bozzano (1862-1943), lo scrittore Arthur Edward Powell (1882-1969), il poerta Francis Prevost (pseudonimo di Harry Francis Prevost Battersby, 1862-1949) e altri ricercatori di cui vi racconterò nei prossimi paragrafi.



Leggi anche:
Fantasmi nella tradizione Indiana