Credenze sull’Aldilà nell’Antica Roma
Nell’antica Roma non vi erano dogmi rigidi o imposti sull’aldilà. La visione comune era che le anime dei defunti proseguissero la loro esistenza negli Inferi. Elementi della cultura greca si riflettono ampiamente nella letteratura romana, come nell’opera Eneide (19 a.C.) di Publio Virgilio Marone (noto come Virgilio, 70-19 a.C.). In questo poema epico, l’eroe Enea si addentra in un regno sotterraneo simile all’Ade greco. Qui incontra i mitici Campi Elisi, dimora delle anime virtuose, e il tenebroso Tartaro, abitato dai dannati. Le anime non sepolte si diceva vagassero inquiete lungo le rive dello Stige, tormentando i vivi. Le divinità legate agli Inferi, quali Plutone, Persefone e Mercurio, erano oggetto di grande venerazione, specialmente in momenti di crisi personale.

Si riteneva che i Dii Manes (letteralmente dèi benevolenti) fossero gli spiriti o le divinità minori degli Inferi e che i defunti si aggregassero a loro nell’oltretomba. Anche dopo la morte, i Romani continuavano a essere presenti nella vita quotidiana attraverso le immagini. Era prassi nelle famiglie, soprattutto quelle aristocratiche, creare maschere funerarie modellate sui volti dei parenti defunti. Queste maschere venivano poi tramandate di generazione in generazione e spesso esibite nella sala principale dell’abitazione. Durante i cortei funebri, i familiari indossavano le maschere degli antenati per onorarne la memoria.
Per gli imperatori romani, il concetto di vita dopo la morte era particolarmente distinto. Dopo l’assassinio nel 44 a.C., Gaio Giulio Cesare (100-44 a.C.) fu il primo cittadino romano a essere divinizzato post-mortem. Attraverso un processo noto come apoteosi, anche molti imperatori successivi furono innalzati al rango divino dopo la loro dipartita. Alcuni, come l’imperatore Caligola (12-41 d.C.), e Commodo (161-192 d.C.), persino aspiravano alla divinizzazione in vita. Tuttavia, la maggior parte degli imperatori, incluso Augusto (63 a.C.-14 d.C.), declinava attivamente tale onore durante il loro regno.
Rituali funebri nel periodo romano
Durante l’epoca romana, si credeva che la morte potesse contaminare o nuocere ai viventi. Di conseguenza, si manteneva una netta distinzione spaziale tra i vivi e i defunti. Un limite, noto come pomerium, circondava le zone abitate, e le sepolture erano permesse solo esternamente a tale demarcazione. Oltre il pomerium, era usuale per chi viaggiava osservare sepolcri disposti lungo le vie d’accesso alle città e ai villaggi.
Questa percezione di distacco si applicava anche ai parenti del deceduto nel corso dell’ottavario funebre. In tale lasso di tempo, i familiari si ritiravano dal tessuto sociale, facendo ritorno alla vita comunitaria soltanto dopo la celebrazione delle esequie. Era comune vedere rami di cipresso appesi all’esterno delle abitazioni in lutto.
Confronto tra le cerimonie funebri dell’antica Roma e le tradizioni attuali
Esistono parallelismi tra le cerimonie funebri praticate nell’antico Impero Romano e quelle osservate in alcune culture contemporanee. Per esempio, era consuetudine che un parente pronunciasse un discorso commemorativo presso la sepoltura. I familiari più prossimi erano incaricati di compiti precisi, come la chiusura manuale degli occhi e della bocca del caro estinto. Nelle cremazioni, spettava a un consanguineo dare fuoco alla pira funeraria e, in seguito, raccogliere e purificare le ossa. Le tradizioni legate al lutto e alla morte nell’antica Roma subirono evoluzioni nel corso del tempo, con particolare riferimento ai metodi di sepoltura. Le più antiche necropoli romane rinvenute risalgono al X secolo a.C. e includono tanto le urne cinerarie quanto le inumazioni. Non si riscontra una prevalenza di cremazioni o inumazioni in specifiche epoche o classi sociali.

Durante il periodo della tarda Repubblica, tra il II e il I secolo a.C., la cremazione divenne il metodo di sepoltura predominante. Le urne, riempite con le ceneri dei defunti, venivano sistemate all’interno di mausolei familiari riccamente decorati. Le persone meno agiate si affidavano a un colombario comune, un edificio con pareti forate da nicchie destinate ad accogliere le urne.
Tra il II e il III secolo d.C., l’inumazione tornò a essere la scelta più diffusa, parallelamente alla diffusione del cristianesimo primitivo che prediligeva tale pratica. Analogamente a molte altre culture, i membri più benestanti della società venivano sepolti con oggetti di valore, quali vasellame finemente lavorato e gioielli.
Conclusioni
In conclusione, i Lemuri dell’antica Roma rappresentano una parte affascinante e misteriosa della storia romana. Queste creature notturne, temute e rispettate, erano molto più di semplici spiriti nella cultura romana. Erano considerati presenze che potevano influenzare la vita quotidiana e che richiedevano rispetto e riconoscimento, in quanto temute.
Studiare i Lemuri ci permette di esplorare un aspetto spesso trascurato della storia romana. Ci ricorda che la storia non è solo fatta di battaglie e imperatori, ma anche di credenze, superstizioni e pratiche quotidiane. I Lemuri ci mostrano una Roma diversa, più intima e personale, una Roma che viveva non solo alla luce del sole, ma anche nell’ombra della notte.